Obiezioni sul metodo, ma valutazione concorde: «Non possiamo fare a meno degli ecosistemi e li stiamo distruggendo». Nel 1997 si credeva valessero 33 trilioni di dollari l’anno: sbagliato, sono 142. Ma la stima è riduttiva.
di Umberto Mazzantini
Un influente ma contestato studio del 1997 stimò che nel 1995 il valore globale dei servizi ecosistemici fosse in media 33 trilioni di dollari all’anno, 46 trilioni di dollari se rapportato al valore del dollaro nel 2007. Nel nuovo studio “Changes in the global value of ecosystem services” pubblicato su Global Environmental Change, un team di ricercatori guidato da Robert Costanza, della Crawford School of Public Policydell’Australian National University, fornisce una nuova stima basata sui valori unitari dei servizi ecosistemici aggiornati, e sulle stime del cambiamento di uso del suolo tra il 1997 e il 2011.
Il team ha anche affrontato alcune delle critiche rivolte allo studio del 1997, e «usando gli stessi metodi, ma con i dati aggiornati, la stima per il totale dei servizi ecosistemici globali nel 2011 è di 125 trilioni di dollari/anno (assumendo i valori unitari aggiornati e le modifiche alle aree di bioma) e 145 trilioni/anno (assumendo il cambiamento del valore unitario), se rapportati al dollaro Usa del 2007». Partendo da questo i ricercatori hanno stimato in 4,3 – 20,3 trilioni di dollari/anno – a seconda di qual valori unitari vengono utilizzati – la perdita di servizi ecologici tra il 1997 e il 2011, causata dal cambiamento di uso del suolo.
Il team di ricerca internazionale, formato da australiani, olandesi, britannici e statunitensi, spiega che «le stime globali espresse in monetary accounting units, come questa, sono utili per evidenziare la grandezza dei servizi ecosistemici, ma non forniscono alcun specifico contesto decisionale. Tuttavia, i dati e i modelli alla base possono essere applicati a scale multiple per valutare i cambiamenti derivanti da vari scenari e politiche». Lo studio tiene a sottolineare che «la valutazione dei servizi ecosistemici (in qualsiasi unità) non equivale alla mercificazione (commodification nell’originale, ndr) e alla privatizzazione. Molti servizi ecologici è meglio considerarli beni pubblici o come un pool di risorse comuni; così, i mercati convenzionali spesso non sono i migliori quadri istituzionali per la loro gestione. Tuttavia, questi servizi devono essere (e sono stati) valutati, e abbiamo bisogno di nuovi asset istituzionali comuni per prendere meglio in considerazione questi valori».
Oltre alle drammatiche cifre sulla perdita di servizi ecosistemici a causa del cambiamento di uso dei suoli, lo studio evidenzia che gli eco-servizi (praterie, paludi, barriere coralline, foreste, biodiversità…) contribuiscono al benessere umano per circa due volte il Pil mondiale (71,8 trilioni di dollari), 8 volte tanto l’economia statunitense.
I servizi ecosistemici vanno dalla produzione alimentare alla protezione dalle mareggiate, dalla depurazione delle acque alla prevenzione dell’erosione del suolo, allo stoccaggio di CO2. Senza i servizi ecosistemici la civiltà umana non funzionerebbe, ma è difficile dar loro un prezzo e quindi gli ecoservizi restano in gran parte invisibili e sottovalutati dai mercati e dalla politica.
«Ad esempio – scrive Climate Progress presentando il nuovo studio – uno dei motivi centrali per il quale le economie umane continuano a emettere massicce quantità di anidride carbonica – nonostante l’incombente minaccia del cambiamento climatico – è che non c’è alcun costo per tali emissioni. Il social cost of carbon (Scc) è un tentativo di mettere un cartellino del prezzo su queste emissioni: dice ai policymakers quali costi si dovrebbero imporre agli emettitori quando si progettano un sistema di cap-and-trade , una carbon tax o norme ambientali simili.. Così come l’Scc, studi come questo cercano di rendere il valore degli ecosistemi naturali visibile ai mercati».
Sappiamo da tempo quali siano i valori degli stock economici e dei flussi finanziari in dollari, ma non sappiamo ancora davvero quale siano il “costo” degli stock e dei flussi naturali. Possiamo dare un prezzo a cose come i depositi di minerali o le riserve di combustibili fossili, ma non così precisamente a cose come fiumi, foreste o popolazioni ittiche. «Questo è un problema – dice Jeff Spross di Think Progress – perché, nei mercati capitalistici, i prezzi sono il segnale che sappiamo quanto grande è lo stock di capitale che abbiamo, o quanto possiamo perdere con una particolare decisione, o quanto sia grande il flusso di servizi che stiamo (o potremmo ) ottenendo da quel capitale».
Secondo il rapporto “Natural Capital at risk: The top 100 externalities of business” – pubblicato da TruCost nel 2013 – stiamo consumando il capitale naturale del mondo per circa 7,3 trilioni di dollari all’anno e, se il capitale naturale può (in parte) ricostituirsi nel tempo, è anche vero che può essere consumato troppo in fretta. Questa dinamica somiglia al vendere stock option dal proprio portafoglio di investimenti più velocemente di quanto si accumulino gli interessi, alla fine il valore del portafoglio decade. Ma secondo Costanza e i suoi colleghi, «il vero valore dei servizi degli ecosistemi del mondo è almeno tre volte più alto» di quanto stimato da TruCost e hanno aggiunto che «più impariamo, più aumentano queste stime».
Il Global Footprint Network avverte da tempo che la società umana vive in uno stato di “overshoot” ecologico già dagli anni ’70, perché ogni anno consumiamo più capitale naturale (o “biocapacità”) di quanto l’ecologia globale possa ricostruirne naturalmente in un anno. Quindi il capitale naturale è in declino, e anche il flusso di servizi ecosistemici che fornisce è in perdita.
Secondo il nuovo studio, il valore annuale dei servizi ecosistemici sarebbe di 23 trilioni di dollari più alto senza i danni arrecati da attività antropiche come la deforestazione e l’utilizzo dei combustibili fossili. «Certo – fa notare Spross - le diverse misurazioni del capitale naturale e dei servizi ecosistemici, e le revisioni regolari di quelle cifre, mostrano che questo campo di conoscenza è ancora molto un work in progress. Ma l’ampiezza delle misurazioni suggerisce che il Pil è in realtà una misurazione grossolanamente inadeguata quando si tratta di dirci cose significative riguardo alla sostenibilità e al benessere di una società».
Commentando lo studio sul New York Times, Douglas J. McCauley, dell’università di California – Santa Barbara, ha detto: «Questo documento per me si legge come un rapporto finanziario annuale sul Pianeta Terra. Apprendiamo che il valore in dollari degli asset più importanti della Terra stao salendo o scendendo. Non sorprende che, lasciati senza queste informazioni, stiamo distruggendo il nostro approvvigionamento globale del capitale naturale». Ma McCauley, dopo aver elogiato il lavoro del team di Costanza, pone qualche obiezione: «Anche con i nuovi calcoli, valorizzare quei beni con cifre in dollari è sbagliato, dato che gli ecosistemi che si restringono o subiscono il degrado possono essere visti come meno preziosi e quindi con meno probabilità di essere protetti. Penso che questo approccio alla conservazione sia falso e pericoloso».
Un approccio alla commodification condiviso su Conservation Letters dal team di Matthias Schröter, dell’università olandese di Wageningen, che nello studio “Ecosystem services as a contested concept: a synthesis of critique and counter-arguments” ha recentemente esaminato una serie di obiezioni che sono state sollevate contro il metodo di Costanza. Alcuni scienziati sostengono che non ha senso guardare gli ecosistemi semplicemente come fornitori di “cose buone”, dato che possono anche portare malattie e arrecarci danno. Secondo Schröter «il metodo di Costanza è un potente mezzo per comunicare solo quanto dipendiamo dalla natura e quanta ne stiamo distruggendo. Il tempo è scaduto. Il messaggio che deve passare è che perdiamo ogni giorno qualcosa di valore cruciale».
Costanza è consapevole delle critiche ma sottolinea: «Fondamentalmente abbiamo detto: “E’ una stima imprecisa, ma è sicuramente un gran bel numero”. E dobbiamo iniziare a prestargli attenzione».
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