Giorgio Nebbia in esclusiva per
greenreport.it. Ritorna una celebrazione sempre più stanca. A quarantadue anni dall’istituzione le parole sono ancora molto lontane dai fatti.
Quarantadue anni: sono passate due generazioni da quel 1972, quando un lungo applauso dei partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente umano, a Stoccolma, approvava la decisione che il giorno di apertura della conferenza – il 5 giugno – fosse proclamato, ogni anno, “Giornata mondiale dell’ambiente”. La conferenza si chiuse con molte dichiarazioni di buone intenzioni: di inquinare di meno; di sprecare meno le risorse naturali; di difendere i boschi e le foreste; di limitare l’uso dei pesticidi; di interrompere la corsa agli armamenti nucleari (quando c’erano già state duemila esplosioni sperimentali nell’atmosfera e nel sottosuolo, tutte con ricaduta sulla terra di sostanze radioattive).
La popolazione mondiale era allora di 3.800 milioni di persone, e oggi ha superato i settemila milioni; nel 1972 il mondo usava una quantità di energia equivalente a quella di 5.000 milioni di tonnellate di petrolio; oggi si consuma energia equivalente a quella di 12.000 milioni di tonnellate di petrolio; nel 1972 non esistevano computer domestici o telefoni cellulari: si può oggi dire che siamo più felici e più sani?
Se ci occupiamo della felicità degli abitanti dei paesi industrializzati (un paio di miliardi di persone) e se la felicità si misura sul possesso di cose materiali e di merci, se la salute si misura sulla base della prestanza fisica, la risposta è “sì”. Il discorso cambia se si contabilizzano i disturbi e le malattie dovuti all’inquinamento delle acque e dell’aria, agli incidenti nei posti di lavoro e sulle strade, all’insicurezza, alla crescita del numero dei poveri e dei disoccupati, al crescente divario fra ricchi e poveri.
Il discorso cambia poi se guardiamo a quegli “altri” abitanti della nostra stessa Terra (un altro paio di miliardi di persone), a quelli che non sanno neanche che cosa sia l’annuale, stanca celebrazione della “Giornata mondiale dell’ambiente”, quelli che sono alle prese con la mancanza di acqua potabile, di abitazioni decenti, di gabinetti, di luce, di calorie e di proteine alimentari, esposti a epidemie, conflitti, migrazioni, siccità o alluvioni.
Proprio nel 1972 l’economista inglese Barbara Ward pubblicò un libro, che fu tradotto anche in italiano e che ormai è dimenticato, intitolato “Una sola Terra”, per ricordare che la Terra – quella con la “T” maiuscola – è qualcosa di comune e indivisibile, che i confini politici e amministrativi non hanno senso perché l’inquinamento delle acque di un fiume in Svizzera fa arrivare le sostanze tossiche in Germania e Olanda, perché i fumi tossici emessi in Canada corrodono gli edifici e i polmoni degli abitanti degli Stati Uniti, eccetera.
Venti anni dopo la conferenza di Stoccolma, davanti ad una situazione ambientale ancora più grave, le Nazioni Unite indissero un’altra conferenza, questa volta a Rio de Janeiro, sul tema “Ambiente e sviluppo”; anche qui accordi, mai rispettati, per limitare il deterioramento planetario del clima dovuto agli inquinamenti, per salvaguardare le foreste; anche questa volta tante buone intenzioni, seguite, nel corso degli anni, da conflitti tutti generati da motivi “ecologici”. Conflitti per la conquista dei pozzi petroliferi o delle vie attraverso cui far passare gli oleodotti; conflitti per la conquista di diamanti o metalli strategici come uranio o cromo o tantalio; conflitti per consentire ai paesi industriali di acquistare a prezzi “equi”, dai paesi poveri, legname, cereali, minerali; conflitti per assicurarsi un pezzo di fiume a cui portar via acqua per irrigare i campi aridi; conflitti per frenare le migrazioni; conflitti per esportare nei paesi arretrati le scorie dei consumi dei paesi ricchi.
Trent’anni dopo quel “settantadue”, si tenne un’altra conferenza a Johannesburg, questa volta col titolo: “Lo sviluppo sostenibile”. Qualunque cosa questa parola magica – sostenibile – voglia dire, perfino nel tema era sparito ogni accenno ad un ambiente naturale in grado di soddisfare i bisogni “umani”, ed era sparito perfino ogni riferimento all’ambiente.
Potrà esserci “sviluppo” ecologico e umano in una Terra così piena di divisioni, discriminazioni e differenze? O piuttosto uno sviluppo o crescita economica di una parte dei terrestri non rischia di lasciare ancora più arretrati coloro (e sono la maggioranza degli abitanti della “Terra”) che restano con i campi sterili, le pianure allagate, le epidemie, e con la voglia di conquistare con la violenza quella parte dei beni terrestri – beni comuni - che gli è negata dai trattati e dalle conferenze internazionali?
Sarà mai indetta una conferenza mondiale sul tema: “Giustizia e solidarietà per un ambiente umano”? Dopo di quella, allora sì, mi piacerebbe tornare a parlare di ambiente e ecologia.
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