I “dati elementari” del Censimento 2011 mostrano che il terzo settore è cresciuto meno di quanto si pensi: l’aumento dell’occupazione è concentrato nelle istituzioni più vecchie. Ma il Governo sembra intenzionato a privilegiare le start-up di nuove imprese sociali. (
http://www.lavoce.info/terzo-settore-sotto-lente-dingrandimento/)
Gian Paolo Barbetta
COM’È REGOLATO IL TERZO SETTORE?
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha posto all’ordine del giorno del Governo la riforma del “terzo settore”. Si tratta di una iniziativa meritoria e tempestiva sia perché il settore fornisce un contributo importante alla produzione di servizi collettivi, al pluralismo istituzionale, all’occupazione e alla coesione sociale nel nostro paese, sia perché la sua normazione e regolamentazione necessitano di una revisione e di un aggiornamento.
La normativa italiana sul terzo settore è infatti cresciuta per strati successivi e senza un disegno organico, producendo esiti non sempre ottimali e talvolta apertamente incoerenti. Attraversando i provvedimenti di natura fiscale e tributaria (dalla legge sulle onlus ai provvedimenti di incentivazione alle donazioni) si è infine approdati alla legge sulla “impresa sociale”, una fattispecie con diffusione modesta (ad eccezione delle cooperative sociali). In questo periodo, il legislatore è riuscito anche a “fare e disfare” una “authority”.
La buona idea di creare un regolatore indipendente – che promuovesse l’esistenza delle organizzazioni di terzo settore (soggetti costituzionalmente tutelati), ne disciplinasse l’attività, evitando di lasciarle in balia delle sole autorità tributarie – è stata vanificata da una legge assai timida nell’attribuire poteri e, soprattutto, culturalmente lontana della prospettiva della “regolazione promozionale” del settore che è invece la tipicità apprezzabile del modello inglese. Infine, per mostrare che anche in questo paese qualche istituzione pubblica può essere chiusa, il Parlamento ha sacrificato l’authority sull’altare dei tagli di spesa, con un risparmio stimato in circa un milione di euro l’anno.
UNA RIFORMA A COSTO ZERO
C’è bisogno di riordinare organicamente la materia anche perché, nel frattempo, il peso economico del settore pare essere cresciuto in maniera significativa. Infatti, pur in presenza di dati non perfettamente omogenei, le prime indagini pionieristiche sul terzo settore italiano stimavano la presenza di circa 400mila lavoratori retribuiti nel 1991, mentre le successive rilevazioni dell’Istat hanno portato a registrarne circa 500mila nel 2001 e poco meno di un milione nel 2011. (1)
Vale allora la pena di suggerire una “riforma a costo zero” che il Governo potrebbe attuare immediatamente: obbligare l’Istat a rendere disponibile a tutti – rendendoli scaricabili direttamente dal sito dell’istituto, senza particolari procedure – i “dati elementari” sulle organizzazioni di terzo settore che sono stati raccolti con il Censimento del 2011, eventualmente resi anonimi. Perché, finora, i cittadini che hanno reso possibile la realizzazione dei censimenti (grazie a uno stanziamento di legge di oltre 620 milioni di euro) non hanno avuto alcuna possibilità di conoscere e utilizzare le informazioni elementari. E i ricercatori lo hanno potuto fare solo attraverso una procedura assai macchinosa che scoraggia ogni lavoro di approfondimento. È un fatto assurdo, esito di una interpretazione discutibile della legislazione sulla privacy, che priva i cittadini, il legislatore e il Governo stesso di informazioni cruciali per lo sviluppo delle proprie azioni riformatrici.
L’ANALISI DEI DATI DEL CENSIMENTO
Che ciò sia particolarmente rilevante per quanto riguarda le politiche di cui il terzo settore ha bisogno è evidente dalle analisi che hanno potuto usare (non senza difficoltà) i “dati elementari” del censimento. (2)
Da quei dati, si vede infatti che la massiccia crescita nel numero di istituzioni nonprofit registrata tra il 2001 e il 2011 (da 235.232 a 301.191, con un aumento del 28 per cento) – salutata come segnale di grande vitalità del settore – in realtà non è stata così forte. Infatti, analizzando i dati elementari, si scopre che oltre 45mila delle organizzazioni censite nel 2011 – e che non erano state rilevate nel censimento precedente – in realtà esistevano già, poiché dichiarano di essere state create prima del 2001.
L’affinamento delle tecniche censuarie ha dunque consentito di fare emergere una realtà già esistente, ma non rilevata (chiamiamole istituzioni “emerse”). Se teniamo conto di questo fenomeno e – sempre grazie ai dati elementari – consideriamo anche le istituzioni “nate” e “cessate” nel corso del decennio, otteniamo il quadro della tabella 1. La crescita indotta dalla nascita di “nuove” organizzazioni nonprofit (quando si consideri anche il numero di quelle che hanno cessato di operare) non raggiunge il 9 per cento nel corso del decennio. È un risultato positivo, ma non eclatante.
Il 47 per cento delle istituzioni nonprofit attive nel 2011 non esisteva nel 2001, mentre oltre il 43 per cento di quelle attive nel 2001 hanno cessato di operare nel corso del decennio. Il settore è dunque caratterizzato dalla creazione di un numero assai elevato di nuove organizzazioni, ma da una altrettanto elevata mortalità, con un fortissimo ricambio.
Le organizzazioni di terzo settore sono dunque creature fragili, che hanno bisogno soprattutto di politiche che le aiutino a consolidarsi e a crescere, poiché le loro dimensioni medie in termini di occupazione risultano spesso assai modeste, tali da non consentire la pianificazione strategica, la formazione del capitale umano, la ricerca e l’investimento. Ad esempio, andrebbe favorita la fusione tra entità troppo piccole per sopravvivere su un “mercato” diventato sempre più competitivo anche a causa della riduzione delle commesse pubbliche, specie nel campo del welfare.
L’analisi dei dati elementari ha un effetto massiccio anche sulla interpretazione della crescita occupazionale che – analizzando i dati grezzi – pare molto rilevante, perché il settore passa dai 592.791 addetti del 2001 ai 957.124 del 2011, con un aumento di oltre 364mila unità (+61,5 per cento). In realtà, le organizzazioni “emerse” occupano – nel 2011 – oltre 110mila addetti. Tenendole in considerazione, la crescita occupazionale del settore si riduce in modo rilevante, scendendo al 43 per cento. (3) Inoltre, sempre grazie ai “dati elementari”, è possibile osservare (tabella 2) che la crescita è in gran parte spiegata dall’aumento dell’occupazione delle organizzazioni che esistevano già nel 2001 (la “crescita interna”), mentre il contributo occupazionale delle istituzioni nate nel corso del decennio (il “saldo naturale”, al netto della perdita occupazionale della istituzioni cessate) non supera il 12 per cento.
Anche in questo caso, le conseguenze in termini di politica economica possono essere assai rilevanti. La proposta – avanzata dal Governo – di un fondo per lo start-up di nuove imprese sociali (dai contenuti per ora vaghi) sembra infatti privilegiare la costituzione di nuove organizzazioni piuttosto che il rafforzamento e la crescita di quelle esistenti. Alla luce delle analisi dei dati elementari, questa scelta potrebbe non essere la migliore.
Infine, l’analisi dei “dati elementari” evidenzia fortissime differenze settoriali e territoriali che si dovrebbero tenere in considerazione nel disegnare le politiche. Ad esempio, e solo per citare i fenomeni di maggiore rilievo, la nascita di nuove istituzioni e la connessa creazione di nuovi posti di lavoro è particolarmente massiccia nel settore della cultura, sport e ricreazione (dove oltre il 50 per cento degli occupati lavora per una istituzione che non esisteva un decennio prima), ma è invece molto modesta nei settori dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale (poco più del 20 per cento degli occupati lavora in una organizzazione “nuova”). Tuttavia, è proprio in questi ultimi comparti che si genera oltre il 70 per cento della forza lavoro totale del terzo settore italiano.
Ancora, l’analisi territoriale dei dati mostra che in alcune circoscrizioni il “saldo naturale” delle istituzioni del terzo settore (la differenza tra quelle create e cessate) è addirittura negativo (figura 1). Sono indicatori che sottolineano come non sia più il tempo di una politica uniforme per tutti i soggetti e i territori del paese.
Note:
(1) Tra le prime indagini sul terzo settore italiano, si veda G.P. Barbetta, Le organizzazioni non-profit nella privatizzazione dei servizi sociali, 1996. La disponibilità di dati ufficiali è il risultato della inclusione del terzo settore nei censimenti dell’industria e dei servizi, decisa sul finire degli anni Novanta.
(2) Si veda:
http://censimentoindustriaeservizi.istat.it/istatcens/wp-content/uploads/2014/03/PLEN_Barbetta-Canino-Cima.pdf(3) La riduzione è più o meno elevata (dal 36 al 43 per cento) a seconda che si ipotizzi, per le istituzioni “emerse”, un tasso di crescita dell’occupazione nel periodo 2001-2011 pari a zero oppure pari a quello medio rilevato dalle organizzazioni rilevate in entrambi i censimenti.