Education. Il nuovo rapporto dell'Economist Intelligence Unit redige la classifica dei migliori sistemi educativi al mondo. Corea del Sud, Giappone, Singapore ai primi tre posti. L'Italia al 25esimo, uno in meno del 2012.

Maria Teresa Carbone

Se avete figli che presto andranno a scuola, e desiderate per loro la migliore istruzione possibile, avete di fronte a voi una soluzione piuttosto impegnativa, ma quasi sicuramente efficace: trasferitevi in Asia, sulla costa del Pacifico. Secondo il rapporto The Learning Curve, che è stato reso pubblico oggi da Pearson ed è il frutto di una ricerca condotta in quaranta paesi dall'Economist Intelligence Unit, i quattro posti dove si studia meglio al mondo sono, nell'ordine, la Corea del Sud, il Giappone, Singapore e Hong Kong. Insomma, per quanto sul piano economico le tigri asiatiche abbiano cominciato a tossicchiare, sul versante educativo la salute sembra eccellente.

Anzi, rispetto al 2012, data d'uscita della prima edizione del rapporto, si è registrato un miglioramento, perché la Finlandia, che allora dominava la classifica, è stata sbalzata al quinto posto e in genere i paesi scandinavi, ancora di recente considerati le punte avanzate del sistema educativo mondiale, hanno registrato prestazioni meno scintillanti – colpa dei risultati alterni ottenuti nei vari test internazionali, che mirano a dare una valutazione “oggettiva” del livello di preparazione degli studenti: il Programme for International Student Assessment (PISA), il Progress in International Reading Literacy Study (PIRLS), il Trends in International Mathematics and Science Study (TIMSS).

Sull'incrocio dei dati emersi in questi test si basano in larga parte le statistiche presentate da The Learning Curve, ma fortunatamente sono gli autori stessi del rapporto a incrinare almeno in parte l'idea che simili valutazioni possano fotografafare in modo preciso la situazione educativa di un paese, quando citano Jagmohan Singh Raju, direttore generale del National Literacy Mission Authority in India, secondo il quale “a seconda dei paesi le competenze valutate e i livelli da ottenere variano, anche se naturalmente un criterio scientifico generale può essere utile”.

Ancora più netta Elizabeth Henning, che dirige il Centre for Education Practice Research dell'università di Johannesburg ed è convinta che “test come il PISA e il TIMSS siano uno spreco di soldi per il Sudafrica, perché rivelano quello che qualsiasi docente, ad ogni livello, già sa”. Henning, come la brasiliana Maria Helena Guimarães de Castro, executive director di SEADE, l'agenzia statistica di São Paulo, e in precedenza sottosegretario alla pubblica istruzione del suo paese, ritiene che il vero fattore di cambiamento, per quanto riguarda educazione e competenze, siano gli insegnanti: “Ne abbiamo troppo pochi – afferma de Castro – perché è una carriera che non attrae i giovani: un problema che non si può risolvere, se non viene affrontato con decisione dal governo”.

Quanto conti l'idea diffusa che l'istruzione sia un fattore determinante per il benessere economico e sociale, è dimostrato proprio dal successo dei paesi asiatici, i cui risultati eccellenti nei vari test internazonali di valutazione dipendono, secondo Andreas Schleicher, vicedirettore del dipartimento educazione dell'Ocse, da una chiara individuazione degli obiettivi da raggiungere, ma anche dal fatto che nel perseguimento dei risultati c'è un lavoro di squadra che vede attivamente coinvolte, insieme alle scuole e agli studenti, anche le famiglie: “Le aspettative dei genitori hanno un ruolo molto importante, perché si riverberano sulla motivazione e la perseveranza dei figli”, nota Schleicher.

The Learning Curve registra tuttavia anche le critiche rivolte ai sistemi educativi dei paesi asiatici, considerati da vari studi troppo rigidi e antiquati: gli studenti sudcoreani, per esempio, per gli esami devono imparare a memoria tra le sessanta e le cento pagine di nozioni. Difficile conciliare questa impostazione, basata in fondo sul vecchio sistema del “leggere, scrivere, far di conto”, con quelle che il rapporto definisce “le competenze del ventunesimo secolo”: comunicazione, lavoro di squadra, problem-solving.

"L'economia mondiale – è ancora Schleicher a parlare – non paga più per quello che le persone sanno, ma per quello che fanno con ciò che sanno”. Anche perché, come ribadisce in più parti il documento dell'Economist Intelligence Unit, quanto si apprende a scuola viene più o meno rapidamente dimenticato e attualmente solo chi possiede una istruzione di livello superiore ha anche gli strumenti per aggiornarsi e ampliare il proprio bagaglio di conoscenza.

The Learning Curve disegna insomma un quadro dell'educazione in movimento, all'interno del quale le “nuove” tecnologie hanno un ruolo notevole, ma meno centrale di quanto si potrebbe immaginare. Un dato, questo, su cui si dovrebbe riflettere al nostro ministero dell'istruzione, dove in tanti sembrano attribuire all'uso dei computer in classe una importanza sproporzionata.

Già, l'Italia: nella classifica stilata dal rapporto il nostro paese si piazza al venticinquesimo posto, scendendo di un gradino rispetto al 2012. Ma più che questo calo (la cui rispondenza nei numeri è di fatto minima), colpisce uno degli indicatori citati nel profilo del paese: la nostra spesa pubblica per l'istruzione (dato 2009) è del 9,05 per cento, contro il 10,38 della Francia, il 12,01 del Regno Unito, il 10,86 della Spagna. Questione di soldi, ma anche, purtroppo, di una impostazione mentale che vede nella scuola un mondo a sé, avulso dal resto: uno sbaglio che, se non corretto rapidamente, verrà scontato dai nostri figli.

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