La questione dell’accesso alla terra rappresenta sempre più distintamente il problema chiave della politica africana contemporanea. Secondo le stime della Banca Mondiale, il fenomeno del land grabbing riguarda 4 milioni di ettari di terra in Sudan, 3 milioni di ettari in Madagascar, 2,7 milioni di ettari in Mozambico, 1,6 milioni di ettari in Libera, 1,5 milioni di ettari in Etiopia, e così via. Nonostante la retorica della “valorizzazione di terre incolte”, le terre svendute sono sistematicamente le migliori: le popolazioni che vi vivevano in precedenza sono generalmente espulse dall’oggi al domani senza indennizzo, senza possibilità di ricorsi legali, e non di rado in maniera brutale. La complicità di milizie private e forze dell’ordine pubbliche configura sistematicamente casi di violazione di diritti umani: alla casa, al cibo, alla proprietà, alla libertà.
Esiste tuttavia una dimensione del land grabbing più subdola, meno nota, eppure altrettanto letale: la discriminazione di genere nell’accesso alla terra in Africa. Sebbene la maggior parte delle costituzioni formalmente vigenti nel continente garantiscano – a parole – l’equità di genere nell’accesso alle risorse, la realtà dei fatti, consacrata dal diritto consuetudinario col tacito consenso delle autorità, determina una situazione completamente differente. In molti Paesi africani, ad esempio, alle donne viene negato il diritto di ereditare la terra. Nella regione saheliana, in Niger, Mali e Sudan, si registrano innumerevoli abusi in questo senso. In alcuni Paesi, alle donne è negata ogni tipo di personalità giuridica e possibilità di avere titoli legali: relegate in uno stato di minorità, come i bambini e i matti, bisognose di essere rappresentate da un “tutore”.
Ma sono numerosissime intanto le istanze di organizzazioni di donne della società civile africana che si sono mobilitate, negli ultimi anni, per rivendicare la giustizia di genere nell’accesso alle risorse. Nella periferia di Niamey, l’ONG locale CONGAFEM è riuscita ad ottenere, grazie a una class action partecipativa, la restituzione dei campi espropriati dalle famiglie stesse ai danni dei membri della comunità di sesso femminile, indipendentemente dal rango, dall’età, dalla religione e dalla ricchezza. La stigmatizzazione delle donne, infatti, non è un elemento accidentale determinato da dinamiche esogene, ma una discriminazione deliberata e consapevole. Ma è nelle aree rurali e remote, dove il diritto consuetudinario è più radicato, che il fenomeno si presenta in tutta la sua gravità. In Swaziland, ad esempio, il sistema patriarcale che regge la monarchia assoluta al potere, contraddice la Costituzione e ne manifesta tutta l’illusorietà: i capi villaggio, espressione dell’aristocrazia per nascita, negano alle donne il diritto di acquisire, ereditare e gestire le terre pubbliche. Le ONG che si sono ribellate, come SWAGAA (Swaziland Action Group Against Abuse) e la Rural Women Assembly, hanno dovuto sfidare non solo l’oscurantismo patriarcale delle autorità “tradizionali”, ma anche la repressione di un regime assoluto, ritenuto responsabile di detenzioni arbitrarie, omicidi di Stato e sparizioni di attivisti per i diritti di uomini e donne.
Eppure, si calcola che se le donne avessero lo stesso accesso alla terra, all’acqua e alle risorse concesso agli uomini, la produttività agricola potrebbe crescere del 15-20%, liberando dalla fame 150 milioni di individui. Il patriarcalismo si dissolve di fronte a qualunque argomentazione razionale, ma nel frattempo continua a rappresentare uno degli istituti più mortiferi della storia.
Luca Raineri,
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