Abbiamo ricevuto, e volentieri pubblichiamo, le note di Luigi Lipparini, Università di Trento, che ha partecipato al Convegno organizzato dall’Istat il 16 aprile scorso a Roma: “Il non profit in Italia. Quali sfide e quali opportunità per il Paese”.

“Il lavoro che ha fatto l’Istat è molto importante perché ci aiuta a fotografare i cambiamenti, a cogliere le dinamiche, a capire dove stiamo andando e, soprattutto, a chiederci se è davvero questa la direzione verso la quale vogliamo proseguire”.

Così affermava Giuliano Poletti (intervista), Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, in apertura del convegno organizzato dall’Istat lo scorso 16 aprile a Roma, nel corso del quale sono stati presentati ulteriori dati relativi alle istituzioni nonprofit, estratti dall’ultimo Censimento dell’Industria e dei Servizi. La giornata è stata contraddistinta da una grande partecipazione: erano presenti rappresentanti di alcune delle più grandi istituzioni dell’economia civile, della comunità accademica, della politica e anche un alcuni giornalisti delle testate nazionali.

Riprendendo quanto affermato dall’ex presidente di Legacoop durante il suo intervento di apertura, l’immagine scaturita dal Censimento Istat sul nonprofit in Italia ne esce forse un po’ offuscata, o meglio ridimensionata (presentazioni sessione “Struttura e dinamica del non profit in Italia”). Sei mesi e due governi fa, nel mio primo post per Iris Network esaltavo la svolta del nonprofit italiano, dimostrata, almeno così era parso, dalle anticipazioni di alcuni dati generali presentati da Andrea Mancini – direttore del Dipartimento per i Censimenti e gli archivi amministrativi e statistici dell’Istat – in occasione delle Giornate di Bertinoro 2013. (presentazione Mancini ott 2013 GDB2013 – presentazione Mancini Istat apr 2014).

Credo che dopo l’evento di Roma l’entusiasmo vada ridimensionato. Se infatti si guarda ai nuovi dati, consultabili liberamente nel datawarehouse dell’Istat, quel +28%, nel numero di istituzioni nonprofit dal 2001 al 2011, dipende in gran parte da quelle che il prof. Gian Paolo Barbetta ha definito “istituzioni emerse”, ovvero organizzazioni che l’Istat ha rilevato solo col Censimento del 2011 ma che dichiaravano di esistere già nel 2001(presentazione Barbetta). In altri termini, l’incremento del numero di soggetti nonprofit non dipenderebbe dal saldo naturale quanto dal fatto che sono emerse organizzazioni che già esistevano e non erano state ancora rilevate. La crescita è quindi in gran parte merito dell’Istat per aver affinato le proprie tecniche censuarie ed essere riuscito a individuare un gran numero di enti nascosti (da un evidenti carenze in sede di compilazione degli archivi?). Il saldo demografico naturale risulta pur sempre positivo ma va ridimensionato, portandolo a circa 20.000 unità in più rispetto al 2001, non un numero particolarmente elevato. Aumenta invece vertiginosamente il turnover di un settore oggetto di un altissima natalità ma anche di intrinseche debolezze: sono molte le organizzazioni che hanno smesso di operare, e se di analizzano i dati territoriali di constata che in alcune regioni il tasso di natalità è addirittura negativo.

Se dalla determinazione del numero di unità organizzative censite si passa ai livelli occupazionali e all’impatto su questi ultimi della dinamica di nati/mortalità descritta in precedenza, si nota che il saldo naturale non è rilevante, mentre invece è molto più importante la crescita interna come numero di addetti nelle istituzioni che già esistevano e del personale delle istituzioni “emerse” (che contano ben 110 mila unità). Da questi dati si evidenzia come la quota di nuove “startup nonprofit” sia rilevante rispetto all’intero comparto (circa il 50%), ma comprensibilmente risulti modesta in termini occupazionali (meno di un quarto dei lavoratori). Questa tendenza sembrerebbe confermare il trend già registrato nel 2001, ovvero una dicotomizzazione del nonprofit italiano, composto da una parte da poche organizzazioni di grandi dimensioni che costituiscono la principale fonte di occupazione grazie soprattutto a risorse generate attraverso transazioni di mercato, e da un numero assai elevato di enti privi di lavoratori dipendenti e basato pressoché sul volontariato e sulle donazioni.

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