Quante persone devono morire nella catena di produzione degli abiti a basso costo prima che qualcuno fermi la fermi? Esattamente 1133. Sono le vittime del crollo del Rana Plaza, il palazzo di otto piani che ospitava 5 fabbriche di produzione tessile a Dacca, in Bangladesh, le cui mura, già dichiarate instabili giorni prima della tragedia, hanno ceduto nelle prime ore del mattino del 24 aprile 2013. (http://www.volontariperlosviluppo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2924:il-costo-umano-della-moda-a-un-anno-dal-rana-plaza&catid=59:campagne-solidali&Itemid=200065)

di Donata Columbro

Nonostante un ordine di evacuazione, gli operai che cucivano gli abiti per conto di 29 brand tra cui Benetton e Mango, si erano comunque recati al lavoro per paura di perdere il posto.

I consumatori sanno pochissimo delle persone che hanno tessuto il cotone degli abiti che indossano e delle loro condizioni di lavoro. Ma non dovrebbe essere così per chi commissiona quegli abiti e paga - un prezzo infinitamente basso - per la loro realizzazione. Eppure la catena di montaggio dell’industria modello “fast fashion”, che fa cambiare in modo rapido i capi sugli scaffali per indurre i consumatori a comprare prima che spariscano dalla circolazione, non prevede contatti tra il brand e le imprese a cui viene appaltata la realizzazione degli abiti.

Dal 24 aprile 2013 le cose però stanno cambiando. Da quel giorno è più difficile far finta di nulla davanti a “un made in Bangladesh” di una camicia che nelle nostre mani arriva al costo di 5€.

Definito come “il punto di non ritorno” per la moda etica, il 24 aprile è stato trasformato nel “Fashion revolution day”, un giorno per ricordare i morti del Rana Plaza, ma soprattutto agire perché le condizioni dei lavoratori del mondo della moda cambino per sempre.

Il primo passo è quello di diffondere consapevolezza tra i consumatori: sai cosa indossi? È la domanda che si legge sulla homepage della campagna, e agli utenti vengono forniti strumenti per rintracciare l’origine dei capi che acquistano. Particolarmente accurato è il sito “Follow the things” , con un logo che ricorda lo store di Amazon, che associa ogni oggetto alle condizioni di vita dei lavoratori del tessile a livello internazionale. Cliccando sul Co-cyprindiol, il principio attivo della pillola anticoncezionale, si impara come l’industria tessile di paesi come Cina e Brasile imponga alle donne di assumere il farmaco per ottenere un impiego, spesso senza previo consulto medico.

“Mentre leggevi quest’infografica, mentre un’operaio ha guadagnato 0,25 sterline mentre i negozi di moda in Inghilterra hanno già fatturato 1000 mila sterline”

In occasione dell’anniversario del Rana Plaza il Guardian ha pubblicato un documentario interattivo sulle condizioni di lavoro degli operai dell’industria tessile in Bangladesh. Nel tempo trascorso durante la lettura degli articoli viene calcolata la paga media di un operaio e il guadagno di un brand che commissiona la realizzazione di un capo: in 14 minuti un operaio guadagna meno di una sterlina, mentre i negozi di abbigliamento vendono per più di 1000 mila sterline.

"Vogliamo che le persone comincino a parlare della provenienza dei collapseloro vestiti”, ha spiegato Carry Somers, una delle fondatrici della campagna Fashion revolution day insieme a Livia Firth, “aumentare la consapevolezza del fatto che non stiamo solo comprando un capo, ma un’intera catena di valori e relazioni. Il sito del FRD sarà una piattaforma di buone pratiche, dove le marche potranno dimostrare i miglioramenti in atto nel loro sistema di produzione”.


Azioni del Fashion Revolution Day

#insideout è l'hashtag e lo slogan che accompagna la giornata di domani: i consumatori sono invitati a indossare i loro capi al contrario e scattare una fotografia per rivelare dove sono stati realizzati e diffondere così consapevolezza sull'origine dei propri abiti.

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