A fronte dell'emergenza posta dai cambiamenti climatici, l'istituzione di Bretton Woods continua a finanziare progetti per l'estrazione di gas e petrolio.

Luca Manes

Il nuovo rapporto del Gruppo Inter-governativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) presentato ieri a Berlino è quanto mai allarmante e indica in maniera chiara e netta, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che va dato un drastico taglio alle emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera (almeno il 40 per cento entro il 2050). Per fare ciò un primo e indispensabile passo sarebbe costituito dal diminuire l'impiego dei combustibili fossili.

Eppure ci sono istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, che tanto potrebbe fare per limitare gli effetti del surriscaldamento globale, ben poco propense a rivedere la loro tendenza attuale nel concedere finanziamenti per progetti estrattivi. I dati parlano chiaro: dal 2008 i banchieri di Washington hanno concesso fondi per ben 21 miliardi di dollari per i combustibili fossili.

Sebbene la media annuale si sia all'incirca dimezzata (da 4,7 miliardi nel 2009 a 2,3 nel 2013), va sottolineato che con un miliardo di dollari nel 2013 è stato raggiunto il record assoluto per progetti per l'esplorazione di nuovi giacimenti di gas o petrolio. Come dire, la via da battere è sempre quella, a fronte di riserve in esaurimento in vari angoli del pianeta, bisogna trovarne altre, costi quello che costi. D'altronde anche le altre banche multilaterali di sviluppo (comprese le “nostre” Banca europea per gli investimenti e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) concordano in pieno sulla bontà di questo modus operandi, visto che se si somma il denaro destinato ai fossil fuels da parte di queste istituzioni si arriva a una cifra esorbitante: 4,5 miliardi di dollari.

Tornando alla Banca mondiale, fa uno strano effetto ripensare al suo rapporto del 2012, in cui documentava in maniera attenta ed esauriente i terribili effetti dell'aumento delle temperature globali intorno ai quattro gradi. Il presidente Jim Yong Kim si era affrettato ad affermare che bisognava assolutamente limitare l'incremento delle temperature sotto i due gradi.

Durante i tradizionali incontri di primavera di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, tenutisi nello scorso fine settimana a Washington presso le sedi delle due istituzioni di Bretton Woods, invece di prodigarsi per rivedere le politiche di finanziamento ai combustibili fossili si è pensato più a lanciare la Carbon Initiative for Development (Ci-Dev).

Ovvero un’iniziativa finanziaria di 75 milioni di dollari ospitata dalla Carbon Finance Unit della Banca Mondiale, e promossa con i finanziamenti di diversi governi tra cui Regno Unito e Svezia, assieme alla Climate Cent Foundation registrata in Svizzera. Obiettivo del fondo sarebbe di facilitare la realizzazione di progetti di carbon credit finalizzati alla “riduzione delle emissioni” e accesso all’energia su piccola scala nei paesi più poveri.

Poco importa se proprio i mercati dei crediti di carbonio si siano rivelati un altro fallimento eclatante, sia dal punto di vista della lotta ai cambiamenti climatici che da quello finanziario.

Il 2013 doveva essere l’anno in cui il prezzo del carbonio “avrebbe definito il mercato”, guidando gli investimenti verso settori più “puliti” e contribuendo nei paesi del Sud del mondo a migliorare le condizioni di vita tramite il meccanismo di sviluppo pulito (il ben noto e altrettanto criticato CDM – Clean Development Mechanism). Niente di più lontano dalla realtà: invece del prezzo prospettato dai fautori del mercato (30 euro a tonnellata), a dicembre 2012 i permessi di emissione europei stavano a 5,89 euro a tonnellata, mentre gli “offset” (ossia i crediti di carbonio legati a progetti nelle economie emergenti, quelli cosiddetti CDM) si vendevano a 0,31 euro a tonnellata.

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