Nonostante la recessione, aumentati occupati e investimenti. Esempi virtuosi anche nel Sud Italia. (http://www.linkiesta.it/cooperative-sociali-italia)

Sorpresa: anche in tempi di crisi, ci sono datori di lavoro disposti a sacrificare il bilancio pur di salvare i dipendenti. Non parliamo di Marte né del Paese delle meraviglie, ma del mondo delle cooperative sociali, sempre più simili a imprese ibride con un’anima non profit. Mentre intorno si diffondeva il deserto, le coop hanno continuato a crescere anche dopo il 2008. «Il comparto ha sì risentito della crisi», spiega Stefano Granata, presidente di Cgm, rete italiana di oltre mille cooperative sociali, «ma ha mantenuto comunque il segno più, subendo di meno lo tsunami occupazionale che investe tutto il Paese. Del resto fa parte della nostra mission: finché si può, piuttosto che tagliare posti di lavoro, si riducono gli utili».

E i numeri sono quelli che gli altri settori sognano. Tra il 2008 e il 2011, secondo il rapporto Euricse sulla cooperazione, le imprese sociali hanno aumentato il valore della produzione del 14 e gli investimenti del 19,4 per cento. Anche gli occupati sono cresciuti, «certo non ai ritmi del 12-13% di dieci anni fa», precisa Granata, «ma scendendo a un più 2-3%». Lo aveva detto anche Giuliano Poletti, prima di passare dalla casacca di presidente di Alleanza delle cooperative italiane a quella di ministro del Lavoro: «Abbiamo ragione di pensare che anche nel 2013 è riscontrabile un rallentamento della crescita delle cooperative. Questo rallentamento riguarda anche le cooperative sociali che finora avevano tenuto. È una situazione che deriva da una ratio ben precisa: queste sono imprese che tendono a difendere elementi strutturali come il lavoro, quindi in questa fase stanno cercando di comprimere i margini per salvaguardare l’occupazione. Quello che rileviamo, quindi, è che in questo momento un primo elemento di problematicità c’è».

In effetti una differenza salta agli occhi: nel mondo cooperativo i contratti a tempo indeterminato sono sempre stati la fetta più grande, ma negli ultimi anni sono cresciuti di più i rapporti di lavoro a termine (+12,2% contro l’8,3% dei rapporti indeterminati), mentre il numero dei parasubordinati è rimasto costante. «Il contratto a tempo indeterminato rimane comunque quello più diffuso», continua Granata, «non si fa uso di contratti di consulenza, almeno nelle cooperative monitorate. Questo perché la gran parte delle cooperative nasce dalla esternalizzazione di servizi prima pubblici, con un commitment certo e più duraturo. Certo, negli anni sono nate diverse cooperative non monitorate, e non è sempre detto che si muovano su terreni legali».
«Forse è proprio nei momenti difficili come quello che stiamo vivendo», dice Granata, «che viene fuori il valore ultimo della forma della società cooperativa»: la compartecipazione e il soddisfacimento dei bisogni dei soci a condizioni migliori di quelle che si otterrebbero nel libero mercato. Non a caso, nelle congiunture negative, il numero di imprese cooperative aumenta sempre: i dati di Nomisma registrano una crescita dell’8,6% del numero delle cooperative rispetto all’1,3% delle altre forme di impresa durante la crisi economica. E anche le coop sociali sono aumentate negli anni della crisi, nonostante le difficoltà finanziarie delle amministrazioni locali, loro principali clienti. Come ha più volte sottolineato la Banca d’Italia, anche le banche di credito cooperativo negli anni della crisi hanno mantenuto tassi di crescita occupazionale positivi, certo a scapito della finanza creativa. La forma cooperativa, poi, ben si adatta anche a quel fenomeno ormai noto come workers buy out, cioè il salvataggio delle aziende in crisi da parte dei dipendenti, che per farlo riutilizzano spesso il trattamento di fine rapporto o le indennità di mobilità.

Il nono censimento dell’industria e dei servizi ha rilevato, a fine 2011, 61.398 cooperative, di cui 11.264 cooperative sociali, per un totale di oltre 1,2 milioni di occupati. I dati estratti dagli archivi Inps ci dicono che, nel corso del 2011, le cooperative sociali hanno complessivamente dato lavoro in varie forme a 513.052 individui, pari al 29,4% degli occupati nel settore cooperativo. Tra questi, ci sono anche i lavoratori svantaggiati e disabili delle cooperative di tipo B (obbligate ad assumere almeno il 30% tra questa tipologia di lavoratori), che sono aumentati del 17 per cento dal 2008. «Persone», dice Granata, «inserite nel mondo lavorativo e che altrimenti rappresenterebbero un costo per la società. Le cooperative, anche in questo, danno un contributo importante all’economia nazionale».

E proprio perché quello delle cooperative è un mondo in un certo senso “anticiclico”, mentre la partecipazione delle donne al mercato del lavoro nel nostro Paese supera ormai di poco il 46%, nel mondo della cooperazione sociale sfiora invece il 70 per cento. E non solo nell’ambito del lavoro dipendente, ma anche nei ruoli di governance delle imprese. Le ragioni dell’alta femminilizzazione del mondo delle cooperative sociali sono due. «Primo», spiega Granata, «storicamente e culturalmente nel nostro Paese le donne sono più inclini ai lavori educativi e di cura. Secondo, le cooperative sociali hanno un alto indice di politiche di conciliazione, con maggiore flessibilità oraria e di turnazioni e una gestione delle risorse umane che favorisce l’incontro tra la vita lavorativa e quella familiare».

Non a caso, le cooperative sociali sono più diffuse nei settori di cura e assistenza per gli anziani o per i bambini e in quelli relativi all’educazione, frutto del processo di esternalizzazione di servizi prima gestiti dalle amministrazioni pubbliche. Ma qualcosa sta cambiando. Oggi, dice Granata, «la produzione si sta spostando su altri settori come l’housing sociale, l’ambiente, le energie alternative, la mobilità e il turismo sociale. La cooperativa non nasce per offrire servizi, ma per rispondere ai bisogni dei cittadini, e oggi i bisogni dei cittadini sono il lavoro, la casa, l’ambiente».
Settori in cui, «anche nel Mezzogiorno d’Italia, dove le cooperative sono sempre state meno presenti, anche per una minore disponibilità economica degli enti locali, si sta dimostrando una grande capacità di innovazione», dice Granata. A Matera, ad esempio, imprese private, cooperative sociali e cittadini si sono messi insieme nel settore dell’housing e i soldi risparmiati dal costo dell’energia sono stati reinvestiti nei servizi sociali. A Palermo, invece, dalla cooperazione tra studenti universitari è nata una società per lo sviluppo del turismo locale e che ora sta esportando il suo modello in altre città di tutto il Paese. Rispetto al Nord Italia, nelle regioni meridionali, le cooperative sono, in media, più piccole, in termini economici e occupazionali. E mostrano, in conseguenza di questo, maggiori problemi in termini di efficienza economica e di capitalizzazione.

L’obiettivo delle coop, incluse quelle sociali, ora è invece proprio quello della sostenibilità economica, sperimentando anche nuove forme di governance. E non parliamo solo di piccole realtà, che pure in Italia sono la maggioranza, ma anche di grandi reti. Come Welfare Italia servizi, società costituita nel febbraio 2009 e partecipata dal Consorzio Cgm, da Intesa San Paolo e Banco popolare, che offre ai cittadini servizi di “sanità leggera”, cioè tutto quello che non ha a che vedere con la chirurgia e gli interventi di emergenza, in 25 centri sparsi in tutta Italia affidati ad altrettante società in franchising. «Ci rivolgiamo», dice Granata, che è anche presidente di Welfare Italia servizi, «a chi non vuole affidarsi al pubblico per evitare le grandi liste d’attesa, ma che non vuole spendere neanche i soldi chiesti dalla sanità privata. Ma non è una sanità low cost, visto che i medici da noi guadagnano come da altre parti».

Quello che manca ancora alle coop sociali sono i giovani. Non nella forza lavoro dipendente, dove i neolaureati sono circa il 60%, ma nelle cariche dirigenziali. Solo il 2% dei giovani al di sotto dei 35 anni sceglie di adottare la forma giuridica della cooperativa come forma di impresa. Perché? «La cooperativa non viene vista come luogo di investimento da parte dei giovani. Il problema è che c’è un consolidato dirigenziale che cerca di autoconservarsi. Oggi è molto complicato avere un trentenne alla presidenza della cooperativa». Non a caso Cgm, il consorzio che Granata presiede, sta creando legami con incubatori di startup: «Il giovane startupper ha l’idea, noi possiamo fornire le infrastrutture necessarie per svilupparsi. Vedremo i risultati nei prossimi 4-5 anni».

Perché se l’obiettivo primario delle coop sociali è la creazione del valore sociale a vantaggio della comunità in cui operano, questo non significa però che valore economico e valore sociale si escludano a vicenda. Con delle regole precise. La differenza tra lo stipendio dell’ultimo lavoratore e quello del primo dirigente «non può superare l’uno a tre, che non significa livellare tutto verso il basso ma trovare un modello di sostenibilità». La creazione del valore economico è quindi necessaria per garantire la sostenibilità dell’iniziativa e l’autosufficienza finanziaria. Anche le cooperative sociali, insomma, nonostante le agevolazioni fiscali e regole diverse dal profit, per poter sopravvivere devono comunque essere in grado di produrre ricchezza.

Tanto da aver sviluppato una nuova forma ibrida tra l’impresa tout court e la cooperativa. «È un modo per attrarre capitali privati profit, da sempre poco propensi a investire nelle cooperative per l’impossibilità poi di controllare e gestire il proprio capitale», spiega Granata. «Con la forma ibrida, i privati possono investire ed entrare nella governance, anche se il Dna rimane sempre la forma non profit». Una sorta di joint venture composta da attori diversi ma con obiettivi condivisi. Una ricerca promossa dal Consorzio nazionale Cgm ha contato oltre 70 di queste nuove imprese all’interno della propria rete. E se la sfida che le cooperative si sono prefisse è quella di diventare sempre più delle imprese sostenibili cercando nuove forme di finanziamento, «la prossima sfida», ammette Granata, «sarà ora quella di migliorare l’efficacia della cultura manageriale». Magari facendo spazio ai giovani anche nei ruoli dirigenziali.

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