Vent’anni fa il piccolo Paese dell’Africa centrale veniva sconvolto da una violenza interetnica senza precedenti. Gli estremisti hutu si scagliarono contro i tutsi cercando di eliminarne per sempre la presenza. Sul numero di aprile, Popoli ha raccolto le storie di uomini che in quel contesto seppero far prevalere l’umanità sulla ferocia. (http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Gli_angeli_del_Ruanda_quelli_che_si_opposero_al_genocidio.aspx)

Il 6 aprile 1994 un missile abbatte l’aereo con a bordo il presidente ruandese Juvénal Habyarimana e quello burundese Cyprien Ntaryamira. Stavano tornando dai colloqui di pace che si erano tenuti ad Arusha (Tanzania) nel corso dei quali gli hutu ruandesi avevano accettato di condividere il potere con i ribelli tutsi. Non si è mai saputo chi ha sparato il missile che ha colpito il velivolo. Quell’abbattimento però scatena la violenza degli hutu estremisti che, secondo un piano studiato da tempo, uccidono tutsi e hutu moderati. In cento giorni muoiono tra le ottocentomila e il milione di persone (non esiste una stima abbastanza precisa). Una strage compiuta nella quasi totale indifferenza della comunità internazionale (scottata pochi mesi prima dal fallimento dell’operazione «Restore Hope» in Somalia) e nella quale si scatenano i peggiori istinti in molti ruandesi. In questa tragedia alcune persone sanno però far prevalere la loro umanità. Queste le storie di uomini che in quel contesto seppero rifiutare la violenza.


QUEI SOLDATI CHE MI AIUTARONO

«Sono convinto che la riconciliazione sia possibile. Tutte le componenti etniche del Ruanda possono vivere insieme. Però la riconciliazione richiede un processo articolato che passa attraverso la verità, il perdono e il riconoscimento reciproco del diritto di ciascuno a essere cittadino ruandese. In sintesi: ci vuole un dialogo autentico che per noi cristiani scaturisce dal messaggio di Gesù Cristo». Padre Alphonse guarda con fiducia al futuro. Lui, religioso ruandese, ha vissuto sulla sua pelle il dramma del genocidio. E ancora adesso, che sono trascorsi vent’anni, di quelle vicende parla con un misto di distacco e di timore, ma anche di gratitudine verso chi lo ha aiutato. Alphonse non è il suo vero nome. E, pur accettando di parlare con Popoli della sua vicenda, preferisce tutelarsi con l’anonimato di fronte a possibili reazioni da parte di confratelli o conterranei. Le ferite sono profonde e ancora aperte.

La famiglia di padre Alphonse è in maggioranza hutu, ma lui è nato da padre hutu e madre tutsi. «Io porto con me sia l’appartenenza hutu sia quella tutsi - osserva - ma, se devo essere sincero, in famiglia non si parlava mai di etnie né, tanto meno, c’erano contrapposizioni etniche. Eravamo semplicemente una famiglia ruandese, come molte altre». Inizia a fare i conti con la questione etnica quando, giovane religioso, viene inviato a insegnare in una scuola nella provincia ruandese. Qui i giovani studenti lo minacciano. «Mi accusavano di rubare i soldi per portarli ai ribelli tutsi - ricorda -. A un certo punto inscenarono addirittura un funerale con una bara con le foto degli insegnanti. Nella Chiesa cattolica il clima non era buono. C’erano attriti fra seminaristi e tra sacerdoti. In alcune congregazioni questi attriti erano forti. In molti religiosi, indifferentemente hutu o tutsi, l’ideologia della divisione era profondamente radicata, frutto di un’educazione identitaria, tutta incentrata sulla esclusione».

Per Alphonse, dopo la morte del presidente e di alcuni amici, il collegio diventa di giorno in giorno un luogo meno sicuro. Decide così di scappare insieme ad altri compagni. Prima trovano ospitalità presso alcuni vicini, poi in un convento di suore. «Abbiamo intuito presto che quel luogo non era sicuro - prosegue Alphonse -, così abbiamo deciso di lasciarlo. È stata una fortuna perché poche settimane dopo alcune suore sono state uccise, tradite da una loro consorella che ha fatto la delatrice». Alphonse si rifugia così nella casa vescovile. «Lì - osserva - ho capito che non tutti i ruandesi erano assassini e non tutti erano stati travolti dalla furia genocida. Ci sono quelli che hanno nascosto i vicini o i confratelli. Quelli che hanno rischiato la vita pur di far fuggire un amico. Anch’io devo dire grazie ad alcune persone che mi hanno aiutato, mettendo in gioco tutto ciò che avevano».

La sede vescovile è circondata da soldati. Alphonse teme di essere in trappola. Di giorno in giorno però inizia a prendere confidenza con i militari. Parla con loro, li conosce uno a uno, ne diventa amico. Quei ragazzi in divisa dovrebbero essere suoi nemici, ma rivelano un’umanità insperata. «Parlando con loro - ricorda - ho capito che non erano fanatici, ma semplici militari messi lì per servizio. Con quelli che mi ispiravano maggiore fiducia iniziai a trattare la fuga». Alphonse organizza un piano per arrivare a Goma. I soldati accettano di farlo scappare. «Una volta raggiunto il Congo ero salvo. Da lì, sono riuscito a raggiungere la Francia, dove ho concluso i miei studi. Devo tutto a quei militari e a mia mamma che mi ha aiutato finanziariamente. Purtroppo non ricordo i loro nomi. Sono stati angeli di Dio. Mi piacerebbe ringraziarli ancora. Ma non so dove siano. Oggi, sempre di più, sono convinto che anche da storie positive come quella di questi soldati si può ripartire per riconciliare il Ruanda». Storie come questa non sono isolate.


LA FORZA DEL SORRISO

Girava disarmato in un Paese in cui tutti avevano un’arma in mano. Le regole di ingaggio imposte dall’Onu gli impedivano di portare con sé anche un coltellino multiuso. Ma, anche ne avesse avuto l’autorizzazione e nonostante fosse un militare, non era con le armi che combatteva il fanatismo. Mbaye Diagne aveva nel sorriso, nella battuta pronta e nel coraggio i suoi alleati migliori. Senegalese, ufficiale in forza alla Missione di assistenza delle Nazioni unite in Ruanda (Minuar), è un eroe (quasi) sconosciuto dei terribili mesi in cui la follia omicida degli estremisti hutu porta all’uccisione di massa di centinaia di migliaia di tutsi e hutu moderati.

Mbaye Diagne si trova proiettato in questo inferno quasi per caso. Nono figlio di una famiglia che vive alle porte di Dakar, dopo la laurea si arruola nell’esercito senegalese. Nel 1994 viene inviato in Ruanda come «osservatore» della Minuar, la missione Onu creata nel 1993 dopo la prima fase degli accordi di Arusha (Tanzania). Sono settimane di grandi aspettative per il Ruanda. La morte del presidente Juvénal Habyarimana il 6 aprile 1994 scatena però la violenza degli estremisti hutu che bloccano le arterie di Kigali, la capitale, e danno il via a una vera e propria mattanza. Una delle prime vittime è la premier Agathe Uwilingiyimana, che viene uccisa insieme al marito e ai militari belgi di scorta.

Il capitano Diagne viene a conoscenza di questo assassinio. Sa che il primo ministro ha cinque figli che rischiano anch’essi di essere uccisi. Li trova in un compound dell’Onu. Il generale Roméo Dallaire, comandante della missione Onu, gli ordina di proteggerli fino all’arrivo dei rinforzi. Ma i rinforzi non giungono, così Diagne carica i cinque ragazzi sul suo fuoristrada e li porta all’Hotel Milles Collines, da dove, grazie a un particolare salvacondotto, riescono a partire per la Svizzera e a mettersi in salvo.ù

Da quel momento il capitano inizia una battaglia per portare in salvo il più alto numero possibile di persone. A bordo del suo fuoristrada bianco con le insegne dell’Onu, carica tre, quattro adulti e bambini alla volta e li nasconde sotto coperte e sacchi. Quando si imbatte nei check-point dei miliziani hutu, si ferma. Si trova davanti miliziani insanguinati, spesso drogati o ubriachi, armati di machete, mazze chiodate, fucili, granate. Lui scende dalla jeep e li affronta da solo, disarmato. Scherza, offre sigarette, a volte soldi. E, dopo una trattativa, viene lasciato andare. Così di posto di blocco in posto di blocco, viaggia in lungo e in largo per la capitale. Non si sa quante persone abbia salvato. Alcuni parlano di decine, altri di centinaia.

Il capitano lascia la vita in Ruanda. Pochi giorni prima del suo rientro in Senegal, mentre è fermo in attesa che gli controllino i documenti, un colpo di mortaio cade poco lontano dal suo fuoristrada. Le schegge lo colpiscono alla nuca uccidendolo sul colpo. Il generale Dallaire, comandante della Minuar, lo ha definito «il più coraggioso dei coraggiosi». Il governo ruandese lo ha riconosciuto tra i Giusti che hanno rischiato la vita per salvare i civili dallo sterminio. Oggi la sua memoria è mantenuta viva dall’Associazione capitano Mbaye Diagne che, nata nel 2010, organizza eventi culturali per ricordarne la figura.


L’EREDE DI PERLASCA

Il genocidio ruandese ha visto anche un italiano come protagonista positivo: Pierantonio Costa. Nato nel 1939 a Mestre (Ve) cresce in Congo dove suo padre si è trasferito. Qualcuno lo paragona a Giorgio Perlasca, il commerciante italiano che durante la seconda guerra mondiale, fingendosi console spagnolo in Ungheria, salvò migliaia di ebrei dalla furia nazista. Costa si schermisce: «Ho risposto solo alla mia coscienza. Quello che va fatto lo si deve fare».

Lui, a differenza di Perlasca, è stato davvero console onorario in Ruanda dal 1988 al 2003. Un’attività diplomatica che ha portato avanti parallelamente a quella di imprenditore nell’area dei Grandi Laghi. Il 6 aprile 1994, Costa è a Kigali. Vede con i suoi occhi scatenarsi la violenza contro tutsi e hutu moderati. Come console si attiva immediatamente per mettere in salvo gli italiani e gli occidentali. Ma poi anche per lui il terreno inizia a scottare in Ruanda. Si trasferisce allora in Burundi dove vive uno dei suoi fratelli. Da lì inizia a organizzare una serie di viaggi per mettere in salvo il maggior numero possibile di persone. «Sono state tre le molle che mi hanno portato a organizzare i miei viaggi - osserva -. Anzitutto ero il console d’Italia e, in quanto tale, avevo l’obbligo di mettere in salvo i miei connazionali. Per farlo ho attuato un piano di emergenza che avevo studiato da tempo con l’ambasciata di Kampala (Uganda). Grazie a questo piano ho avuto la possibilità di mettere in salvo tutti gli italiani, ma anche molti occidentali. Quando mi recai a prelevare due missionari italiani che gestivano un orfanotrofio vidi negli occhi dei bambini la paura. Questo mi spinse a fare qualcosa anche per i ruandesi. Non nascondo, infine, che in Ruanda avevo anche quattro imprese. Tornare spesso a Kigali mi permetteva di controllare che le aziende non fossero saccheggiate e aiutare i miei dipendenti (che allora erano un centinaio)».

In collaborazione con la Croce rossa e alcune Ong, Costa mette in salvo quasi duemila persone, tra esse 375 bambini. Oltre a rischiare la vita, impegna nella sua azione anche una parte consistente del suo patrimonio. Alla fine del genocidio avrà speso oltre tre milioni di dollari. L’Italia e il Belgio lo hanno insignito della medaglia d’oro al valor civile. C’è il rischio che questo genocidio si ripeta? «Difficile dirlo - conclude -. I ruandesi si sono resi conto di quanto riprovevole sia stato quello che hanno fatto. Anche se ci sono sempre in agguato politici che, per interessi personali, possono soffiare sul fuoco. Ciò che mi rende fiducioso è che il 50% della popolazione ruandese è troppo giovane per ricordarsi della strage. Ciò significa che, nell’arco di una generazione, la maggioranza dei ruandesi conosce quegli eventi solo per come gli sono stati raccontati. Questo è positivo se il genocidio verrà insegnato come un errore e la riconciliazione diventerà un modello per l’intero Paese. Una strada, quest’ultima, sulla quale l’attuale governo si sta muovendo da anni».

Enrico Casale

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