Al Welfare State sono attribuite due funzioni: una funzione redistributiva, volta a rimuovere le disuguaglianze economiche, e una funzione assicurativa, volta a garantire protezione dai rischi di malattia, di vecchiaia e di disoccupazione. Negli ultimi decenni si è però sempre più identificato il Welfare State nella funzione redistributiva, anche con riferimento a istituti con intrinseche finalità assicurative. (
http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=1980&Itemid=1)
di Michele Grillo
Anche se non è agevole separare le due funzioni (l’assicurazione redistribuisce sempre risorse, da coloro che pagano il premio ma non sono colpiti dall’evento avverso a favore di coloro che ne sono colpiti), dal punto di vista interpretativo l’evoluzione nella rappresentazione del Welfare State ha avuto implicazioni importanti per il dibattito di politica economica.
L’enfasi sulla redistribuzione accomuna i neo-liberisti, a destra, e i fautori del Welfare State, a sinistra. I primi appuntano gli strali sugli incentivi perversi della redistribuzione suofferta di lavoro e crescita e mostrano anche una contraddizionerispetto alla rimozione delle disuguaglianze: poiché l’elettore mediano ha un reddito inferiore al reddito medio dell’economia, nelle democrazie è alla fine la classe media (che include l’elettore mediano) a catturare gran parte dei trasferimenti. I neo-liberisti sollecitano così un Welfare State limitato al “conservatorismo compassionevole” propugnato dalle amministrazioni repubblicane USA. Anni fa il Libro Bianco di Sacconi proponeva in Italia un analogo messaggio: delegare al mercato la funzione assicurativa, limitando l’intervento dello Stato sociale alla tutela degli svantaggiati (Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, La vita buona nella società attiva - Libro Bianco sul futuro del modello sociale, Maggio 2009). Ma l’enfasi redistributiva dei fautori dello Stato sociale ha avuto ugualmente conseguenze problematiche, perché ha esaltato una visione antagonistica dei rapporti sociali e oscurato che il Welfare State ha una dimensione cooperativa. Alla fine sono mancati, nella discussione pubblica, argomenti adeguati da contrapporre alla critica neo-liberista: sia per confutare l’attenzione esclusiva al moral hazard, sia per proporre una visione dell’economia in grado di comprendere il Welfare Statein uno schema di mutuo vantaggio.
In molti Paesi le ricadute reali della crisi finanziariasono state causa di una “crisi fiscale” del Welfare State. Ciò ha esacerbato le contraddizioni insite nell’ottica redistributiva. In Italia sarà difficile uscire daquesta crisi senza riconsiderarele finalità del Welfare Statein un’ottica di mutuo vantaggio. Due aspetti meritano una seria analisi: il ruolo del rischio in un sistema di mercato e le ragioni dell’intervento pubblico nell’assicurazione di alcuni rischi tipici.
In “The Economics of Welfare” Pigou anticipava lo sviluppo delle istituzioni di Welfare State nel capitalismo del XX secolo analizzando il ruolo del rischio nel sistema di mercato. Pigou dava prospettiva teorica a una considerazione non ignota agli storici ma rimasta in sordina nel dibattito economico: nel secolo XIX, un contributo cruciale alle economie di mercato era venuto dall’affermazione del principio giuridico di responsabilità limitata. L’assunzione di rischio infatti è essenziale per lo sviluppo capitalistico ma i soggetti economici sono, in genere, avversi al rischio: la loro disponibilità ad assumere rischi è legata a istituzioni sociali in grado di offrire assicurazione. Il principio di responsabilità limitata permise ai capitalisti di “mettere le uova in più panieri” (allontanando la tetra prospettiva dickensiana della prigione per debiti). Più in generale, Pigou osservava che il rischio presenta due caratteristiche tipiche di un fattore produttivo: a rischi più elevati corrispondono rendimenti maggiori e costi più alti. Assicurarsi equivale alla riduzione del prezzo di un fattore: non modifica il rischio, e quindi il rendimento, delle diverse scelte economiche, ma riduce il rischio sopportato dai soggetti che le intraprendono, incentivandoli a selezionare progetti più produttivi perché più rischiosi. Nel XX secolo, con l’approfondimento della divisione del lavoro e l’aumento diffuso della ricchezza, è aumentato grandemente il contributo delle classi medie all’assunzione di scelte economiche rischiose: non è più solo il capitale ad aver bisogno di assicurazione, ma anche il lavoro, diventato sempre meno forza-lavoro e sempre più “capitale umano”. Ma con una differenza importante: mentre la responsabilità limitata permette al capitale di autoassicurarsi “mettendo le uova in più panieri”, il capitale umano deve “mettere le uova in un solo paniere”; il che lo pone nella necessità di proteggersi rispetto a tre rischi fondamentali: (i) la disoccupazione; (ii) la capacità di reddito nell’intero arco di vita; (iii) la salute.
Nella protezione da questi rischi l’intervento diretto dello Stato è stato essenziale. Se l’assicurazione sanitaria pubblica è tema controverso tra le due sponde dell’Atlantico - ma già nel 1992 Peter Diamond calcolava, per gli Stati Uniti, un costo sociale complessivo di assicurazione e offerta dei servizi sanitari molto più elevato che in Europa (Peter Diamond, “Organizing the Health Insurance Market”, Econometrica, vol. 60 (6), 1992, pp. 1233-54) - è un fatto che non esiste al mondo assicurazione privata della disoccupazione (perché è difficile misurare la probabilità di rimanere disoccupato e perché un’impresa di assicurazione ha incentivo a selezionare i rischi migliori) e che l’offerta privata di assicurazione pensionistica è limitata dalla impossibilità di proteggere dai rischi di inflazione non attesa e di scrivere contratti di assicurazione intertemporali per coprire i rischi inflazionistici che sono altamente correlati (Nicholas Barr, The Economics of Welfare State, Oxford University Press, 2012.). Ma, a parte il rimedio ai fallimenti tipici dei mercati assicurativi, la ragione profonda di un’offerta pubblica di assicurazione risiede negli effetti positivi che ricadono sull’intero sistema quando gli operatori sono posti nelle condizioni di assumere decisioni a più alto rischio e a più alto rendimento atteso. Questa ragione resta in ombra nella visione redistributiva del Welfare State, che mette piuttosto in rilievo le esternalità negative legate al moral hazard nell’offerta di lavoro. Sorprende tuttavia la coincidenza della progressiva rimozione della finalità assicurativa del Welfare State con l’attuale fase dello sviluppo capitalistico nella quale l’attenzione è rivolta prevalentemente al capitale umano come motore di crescita: così, mentre si chiede ai soggetti di intensificare l’investimento in capitale umano, non si riconosce loro adeguata protezione dagli esiti incerti di tale investimento.
I modi in cui si sono storicamente affermati in Europa i diversi sistemi di Welfare State sono oggi forse il più serio ostacolo a un progetto che minimizzi le tensioni redistributive e faccia leva su meccanismi di mutuo vantaggio. Un coerente progetto assicurativo ha bisogno di un patto sociale che preveda protezione universale dai tre rischi fondamentali. In Europa, tuttavia, solo l’assicurazione sanitaria dei Servizi Sanitari Nazionali è un po’ ovunque concepita come assicurazione universale. Sui rischi di disoccupazione e sulla garanzia di reddito nell’intero arco di vita pesa l’eredità storica. Da un lato, i sistemi continentali di Welfare State, più in linea con una finalità assicurativa, sono condizionati fin dall’origine da un modello non universalistico, ma occupazionale. D’altro lato, i sistemi anglosassoni sposano un approccio universale ma si sono evoluti in una direzione redistributiva e assistenziale perché il favore verso il mercato e il vincolo della protezione auna “prova dei mezzi” hanno contrastatogli elementi assicurativi pur presenti nel disegno di Beveridge. Al di fuori dei Paesi nordici, dove il Welfare è da sempre concepito come contenuto di un patto sociale, i principali modelli di riferimento in Europa poggiano o su una concezione universalistica, sempre più limitata a finalità redistributive, o su una finalità assicurativa, la cui concezione non universalistica si è risolta sempre più in conflitto sociale.
Il Welfare italiano è assicurativo e particolaristico (a parte la sanità). L’assicurazione dai rischi di disoccupazione e di capacità di reddito nell’arco di vita soffre di ampie asimmetrie per le segmentazioni con cui è stata offerta (diversa) protezione pubblica ai diversi settori economici. Le segmentazioni, che negli anni Sessanta e Settanta si era cercato di ridurre, sono state riprodotte e ampliate negli anni Novanta, per l’insistenza su una improvvida nozione di diritti acquisiti che ha condizionato la risposta alla crisi fiscale del Welfare State sovrapponendo segmentazione per età asegmentazione per settori. Così, nonostante le origini assicurative, il Welfare State italiano è più che mai redistributivo e conflittuale, oltre che assai lontano da un’autentica tutela dei soggetti svantaggiati. Oggi c’è il serio rischio che la tensione tra diritti ereditati e progettualità del futuro possa porre (non solo in Italia, ma anche in Italia) un sostanziale problema di democrazia (Come mette in rilievo il saggio “What’s gone wrong with democracy”, pubblicato su The Economist, 1° marzo 2014.).
Al netto degli elementi di dettaglio, il principio ispiratore dei provvedimenti proposti dal governo Renzi in tema di lavoro (e quindi anche di assicurazione della disoccupazione) è chiaramente orientato verso un approccio universalistico e rappresenta, in questa prospettiva, un’importante cambiamento di modello. C’è da augurarsi che il dibattito parlamentare rafforzi e non indebolisca questo orientamento. E, nonostante il tema non sia oggi sul tappeto e negli ultimi anni siano stati compiuti importanti passi avanti, la stessa direzione dovrebbe essere impressa all’evoluzione del sistema pensionistico, che nella composizione della spesa pubblica rappresenta la principale anomalia italiana rispetto ad altri Paesi europei. Rafforzarne la logica assicurativa e universalistica richiede, in prospettiva, essenzialmente due cose: non interpretare il regime contributivo come la trasformazione di piani pensionistici in piani di accumulo individuale di risparmio elegare strutturalmente l’età della pensione all’aspettativa di vita e alle condizioni di salute dell’età matura (sapendo anche che ciò implica la necessità di creare le condizioni per la più ampia flessibilità dei lavoratori anziani).