Un libro racconta la storia di un modello tutto albese. Un’idea di Welfare che unisce tradizione e modernità. (
http://www.lastampa.it/2014/03/20/cultura/alla-fondazione-ferrero-la-fabbrica-diventa-comunit-untCqf80KJxTTWrjbBGotL/pagina.html?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter)
Sergio Soave
Pensi ad Alba e l’immagine è quella del movimento: traffici, commerci, tartufi, vini, manifatture che si sono fatte strada nel mondo, un popolo vitale che ha nel Dna il gusto dell’impresa, convinto, anche se non lo dice, di avere una marcia in più degli altri. È per questa impronta che la piccola capitale di uno dei più straordinari distretti d’Europa viene studiata. Ed è giusto che sia così.
Ma c’è un primato meno conosciuto: quello della «Fondazione Ferrero», nata 30 anni fa.
Primato di welfare aziendale, innanzitutto: oggi, non c’è niente di simile in Italia; qualcosa di vagamente analogo è riscontrabile ai margini di imprese tedesche; lo spirito di appartenenza può ricordarci il Giappone, ma l’insieme non è equiparabile.
Eppure l’idea è semplice: la vita non finisce con la pensione; in certi casi, può cominciare di lì.
Michele Ferrero sentiva forse di avere un debito con la provvidenza, quando ci pensò la prima volta, nel 1983: vent’anni di comando in una azienda giovane; prodotti sempre centrati; la cura maniacale della qualità per rimuovere la nomea di fabbrica del surrogato; la gratitudine di maestranze trattate davvero come persone; mai uno sciopero; fatturati da capogiro. Ma, c’era un ma. Per gli operai e i tecnici della prima generazione era arrivato il tempo della pensione e molti se ne andavano quasi dispiaciuti per non poter più partecipare a quella straordinaria avventura.
Bisognava dunque fare qualcosa: prese carta e penna e scrisse tre parole: «lavorare, creare, donare». Le maestranze che avevano contribuito a sviluppare i prodotti dell’azienda non dovevano disperdersi, ma trovare un luogo e le risorse per continuare a esprimersi. Lui avrebbe messo a disposizione luogo e risorse. Il resto sarebbe nato da loro. E questa volta i frutti sarebbero andati alla comunità e al territorio, sì che la vita, almeno in quell’angolo di Piemonte, fosse un continuo scambio di doni e di esperienze.
Quello che ne seguì con la guida e lo sguardo partecipe della moglie, la signora Maria Franca, avrebbe ampiamente superato l’intuizione iniziale. E ora è raccontato in un bel volume curato da Caterina Ginzburg che ha affidato a Olivia Arthur di Magnum Photos il compito di svelare con le immagini la verità e il fascino di tutta la storia.
Ci sono i dati innanzitutto: 1800 pensionati Ferrero, suddivisi in quaranta gruppi di attività; una media di 800 presenze giornaliere in Fondazione; una molteplicità di campi di impegno sbalorditiva: c’è il gruppo di accoglienza che governa l’afflusso; quello della biblioteca, coordinato da un’operaia di Treiso innamorata dei libri che in gioventù non poteva leggere; c’è chi fa le adozioni a distanza «per restituire al mondo intero quello che la Ferrero ci ha dato»; ci sono le attività tradizionali da centro anziani: la sala per i giochi di carte, il corso di ballo per le feste domenicali con tanto di orchestrina e clown «autarchici», che però girano anche nelle case di riposo del circondario per portare un po’ di allegria; c’è il gruppo del «Nordic Walking» e delle gite ecologiche.
Se non stai bene, puoi rivolgerti agli autisti che con quattro auto e due furgoni vanno a fare la spesa per te o ti vengono a prendere a casa per portarti dai medici della Fondazione che fanno in media 2500 visite all’anno. Ci sono le pasticciere che preparano biscotti e dolci per gli ospiti e per i bisognosi; cuochi e camerieri per i raduni conviviali della grande famiglia (400 e più coperti alla volta); ceramisti, pittori e ricamatrici che preparano oggetti per il mercatino di Natale (il ricavato va in beneficenza); un nucleo di ex ragionieri che ti fa la dichiarazione dei redditi. Ci sono le sarte e «i Fracassa», manovali che preparano le scenografie per la compagnia teatrale interna e le strutture per le grandi mostre della Fondazione (da Carrà a Gallizio a Morandi); c’è il giornalino (3000 copie); c’è la corale che in duomo ha cantato piangendo il requiem per la morte del giovane Pietro, il figlio che, con Giovanni, doveva rappresentare il futuro. C’è la «Misericordia Santa Chiara», il gruppo di protezione civile formatosi dopo la grande alluvione del ’94 che ha reso a L’Aquila e altrove il bene allora ricevuto.
E ci sono soprattutto gli anziani che lavorano nell’asilo dell’azienda, a contatto con i bambini cui raccontano storie o insegnano a fare l’orto, a curare le piante e i fiori secondo linee pedagogiche diventate un modello (all’altro estremo della scala del sapere, la Fondazione finanzia borse di studio e master universitari d’eccellenza sui temi della nutrizione).
È insomma un universo di libere e coordinate vocazioni che aiuta gli anziani a vivere più a lungo e meglio. Perchè bisogna sentirle raccontare dai tanti ottuagenari e settuagenari le loro storie, testimoni di un Novecento in cui dominano i ricordi di una vita grama passata in una langa da malora e riscattata dall’impiego nell’azienda, per un dono della fortuna che ora si sentono in dovere di ricambiare. Tutti mossi da «ferrerite acuta» e conquistati alla nuova vocazione.
Paternalismo? Interessato calcolo? In un mondo di nudi rapporti di denaro e potere, qualcuno lo sosterrà, ma anche tra gli economisti (Giulio Sapelli) si obietta che una società si tiene insieme con il dono più che con l’utilità. E ne conviene, naturalmente, la psicologia sociale di un Luigi Anolli che al caso Ferrero e al concetto del «dono creatore di comunità» ha dedicato pagine intense. E in effetti, la Fondazione è la riuscita proiezione di un sogno: quello di un mondo, di una comunità e di una fabbrica che vivono in armonia. Come si può fare. Come dovrebbe essere.