Nella discussione pubblica, spesso sentiamo affermare che i vincoli delle risorse renderanno non più sostenibile il welfare state che abbiamo conosciuto. Il che richiederà tagli a molte prestazioni sociali oggi fornite dal settore pubblico. Un’affermazione simile, ad esempio, è stata anche espressa dal governatore della Banca Centrale Europea. (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=1964&Itemid=1)

di Elena Granaglia

Le singole posizioni poi si differenziano a seconda che si sostenga la necessità di un vero e proprio retrenchement (tagli generalizzati) oppure quella di una ricalibratura con tagli in alcuni settori e aumenti in altri. Ma, a prescindere dalle distinzioni, l’idea diffusa è che nel futuro non ci potremo più permettere il welfare state passato (o quanto meno l’ideale di welfare state passato, date le tante carenze nel nostro paese).

I vincoli delle risorse sono incontrovertibili. Anzi, dovrebbero essere resi ancora più noti al paese. Rispettare il fiscal compact, nel 2015, richiede di destinare circa 56 miliardi alla riduzione del debito nonché di realizzare 85 miliardi di avanzo primario al fine di assicurare il pareggio di bilancio (in modo da sostenere la spesa per interessi).

Certo, tali vincoli possono e devono essere allentati in sede di governance europea, anche per evitare quelli che appaiono seri rischi di avvitamento di una politica fiscale restrittiva che, facendo diminuire il PIL, ingenera una spirale viziosa di riduzione della base imponibile, a sua volta, fonte di ulteriori misure restrittive e depressive (emblematici al riguardo sono i dati sull’andamento dell’avanzo primario, che ha fatto seguito alle manovre del governo Monti. L’avanzo è significativamente diminuito rispetto alle attese e il rapporto debito PIL è salito dal 120% del 2011 al 133% del 2013. Non a caso, i risparmi della spending review che, in prima battuta, avrebbero dovuto confluire in un fondo per la diminuzione della pressione fiscale, sono ora destinati soprattutto alla diminuzione dell’indebitamento netto.Sul tema, cfr., fra gli altri Pisauro, www.lavoce.info e Benetti, www.uguaglianzaeliberta.it). Non solo, molto si può fare anche nel contesto italiano: basti pensare alla questione del contrasto all’evasione. Ciò nondimeno, nel breve, allentamenti significativi appaiono assai poco probabili, a causa anche dell’operare di tendenze strutturali che limitano la possibilità di espansione dello stato sociale, dalla pluralità di compiti pubblici già affidati a quest’ultimo alle difficoltà complessive di tassi di crescita e di occupazione elevati.

Pur nel riconoscimento dei vincoli, affermare che dovremo tagliare il welfare che abbiamo conosciuto ha, tuttavia, diversi elementi di debolezza. In questa sede, limito l’attenzione a due di essi. Primo, la politica economica seguita alla scoppio della crisi ha giàridotto, e non di poco, le prestazioni sociali nel nostro paese. Chi auspica tagli futuri rischia di non vedere quanto lo Stato sociale già sia stato ridimensionato. Secondo, chi porta l’attenzione sui tagli tende a trascurareuna variabile centrale: cosa si possa fare per migliorare il pubblico. Ora, alcuni tagli potrebbero anche migliorare le prestazioni. Ad esempio, riduzioni nelle retribuzioni dei dirigenti pubblici apicali, oltre a essere giustificabili sotto il profilo equitativo (il settore pubblico è il settore dove le disuguaglianze di retribuzione sono più cresciute nel nostro paese), potrebbero avere effetti positivi di auto-selezione, diminuendo l’incentivo all’entrata di soggetti per i quali la remunerazione monetaria ha un elemento preponderante (rispetto alla valutazione intrinseca del lavoro pubblico). D’altro canto, come ha ben messo in evidenza Perotti in una serie di interventi recenti su www.lavoce.info, il divario fra le retribuzioni offerte in Italia e quelle offerte in un paese per molti versi a noi simile, la Gran Bretagna, è stridente (e molte considerazioni potrebbero applicarsi anche alle remunerazioni delle Autorità Indipendenti). Ciò nondimeno, il miglioramento delle prestazioni offerte non è in alcun modo automatico.

Altri elementi critici concernono il dare per scontata la dipendenza dei diritti dalle risorse disponibili nonché a sottovalutare le vere e proprie perdite di benessere (dunque, le inefficienze), oltre alle iniquità, che potrebbero essere associate ad un’espansione del “privato” in ambito sociale. Da tali elementi, tuttavia, prescindo in questa sede.

Incominciando dal primo punto indicato, si considerino due settori, l’assistenza e la sanità rispetto ai quali è difficile affermare che già prima della crisi si spendesse troppo. L’Italia destina alla spesa per l’esclusione sociale uno dei valori più bassi in ambito UE: siamogli unici, insieme a Grecia e Ungheria, a mancare di una rete universale di reddito minimo di ultima istanza. Similmente, rispetto alla sanità, il nostro SSN, a partire da metà degli anni 90 offre uno degli schemi di tutela della salute fra più parsimoniosi. Nel 2012, secondo l’Ocse, la spesa pro-capite del SSN era pari a 2.418 dollari a parità di potere d’acquisto contro un valore di 3.316 per la Germania e di 3.135 per la Francia. Non solo: nel periodo 2000-2009, l’Italia (insieme all’Islanda) ha registrato il più basso tasso di crescita della spesa sanitaria complessiva. Dal 2010, poi, la spesa ha cominciato a scendere in termini addirittura nominali, da 112,5 miliardi nel 2010 a 111,6 nel 2011, 110,8 nel 2012 e 111,1 nel 2013.

Nonostante questa situazione, rispetto all’assistenza, lo stanziamento per i diversi fondi sociali (nazionali) è, per il 2014, pari a poco più di 964 milioni. Nel 2008, il valore superava, seppure di poco, i 2,5 miliardi. Ora, è certamente vero che l’operato dei governi Monti e Letta consegna un miglioramento rispetto al ridimensionamento a 230 milioni previsto dagli ultimi provvedimenti del governo Berlusconi. Inoltre, ai 964 milioni citati occorre sommare i 550 milioni di nuovi fondi destinati al contrasto della povertà. Ciò nondimeno, il valore complessivo degli stanziamenti per il 2014 è sempre inferiore di circa un miliardo al valore 2008. Inoltre, restano oltremodo allarmanti le previsioni per il 2015 e il 2016 riportate dall’ultima legge di stabilità. Solo alcuni dati: nel 2015 e nel 2016, al fondo nazionale per le politiche sociali sono destinati rispettivamente 14,5 e 14,6 (il valore per il 2014 è pari a 317 milioni ed era pari a 923 milioni, nel 2008). Il fondo per le non auto-sufficienze sarà azzerato, mentre i fondi per la povertà scenderanno a 297 milioni nel 2015 e a 40 milioni nel 2016. Al contempo, i tagli ai trasferimenti a Regioni e Comuni hanno compresso le possibilità di interventi compensativi in ambito locale.

Tagli significativi (rispetto al tendenziale) hanno, altresì, colpito il SSN. Le riduzioni operate dal Governo Monti, in aggiunta a quelle previste dal precedente governo Berlusconi, hanno comportato una riduzione del finanziamento di 3,8 miliardi nel 2012, 7,3 miliardi nel 2013 e 9 miliardi nel 2014. La legge di stabilità per il 2014 non comporta nuovi tagli espliciti. Prevede tuttavia tagli di oltre 1,15 miliardi nel prossimo biennio per riduzione di personale e lascia irrisolta la questione del finanziamento di 2 miliardi associati a ticket (previsti dall’ultimo governo Berlusconi), ma poi annullati.

Certamente, lo si è detto più volte, la spesa per l’assistenza e quella per la sanità nel nostro paese finanziano anche sprechi e su questo tornerò più sotto. Il punto è che i tagli hanno riguardato settori che già assorbivano un ammontare contenuto (la sanità) o addirittura molto contenuto (l’assistenza) di risorse.Tagli ulteriori rischiano di pregiudicare l’esistenza stessa del SSN. L’assistenza, dal canto suo, è il classico settore in cui la spesa dovrebbe essere anti-ciclica: da noi, i tagli ne hanno accentuato il carattere pro-ciclico.

Passando al secondo elemento critico,preoccupa la sostanziale trascuratezza della questione di cosa si possa fare per migliorare il pubblico, come se tutto ciò che rileva sia tagliare. Ricordo, al riguardo, alcune ipotesi considerate in sede di spending review a favore di un più stretto legame fra componente variabile delle remunerazioni e contenimento della spesa.
Ora, come sopra riconosciuto, sprechi sono innegabili e alcuni tagli potrebbero contribuire anche al contrasto agli sprechi e al miglioramento complessivo delle prestazioni. Anche nel caso (non comune) in cui i tagli avessero questa funzione, essi sarebbero, tuttavia, del tutto insufficienti. A tal fine, è cruciale la messa in opera di un’organizzazione del lavoro che metta al centro la produzione di risultati per la cittadinanza.

In questa prospettiva, servono procedure di selezione trasparenti basate sul merito. È banale, ma le procedure di selezione nella nostra amministrazione pubblica continuano in troppe occasioni ad essere opache. Serve, altresì, il blocco degli incarichi plurimi, in barba a qualsiasi incompatibilità. Ricordo che, da sempre, lavorare per un’impresa concorrente è stata per i lavoratori del privato una “giusta causa” di licenziamento. Primari del SSN e docenti delle Università italiane possono, invece, tranquillamente avere incarichi anche di responsabilità in ospedali e università private. Si dice: “gli stipendi pubblici sono troppo bassi, si perdono i migliori”. Ma, con chi ci si compara? Lo stipendio medio lordo in Italia si aggira attorno ai 26.000 euro. Non a caso, come documenta Raitano (2014), il settore pubblico in Italia è il settore dove più sono aumentate le disuguaglianze. Semmai, un’azione perequatrice dovrebbe riguardare i tanti precari meritevoli che prestano lavoro in tale settore nonché i lavoratori in attività esternalizzate con gare al massimo ribasso. Infine, servono procedure permanenti di revisione e valutazione dei processi e delle prestazioni erogate. L’effetto potrebbe anche essere la realizzazione di ulteriori risparmi: fra l’altro, più le risorse sono vincolate, più i risparmi sono apprezzabili. Tali eventuali risparmi dovrebbero, però, restare nel settore che li genera. Tutto ciò appare trascurato dalla mera focalizzazione sui tagli.

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