Con la presentazione dell’
emendamento firmato dall’onorevole Luigi Bobba , la revisione della legge sull’impresa sociale sta prendendo forma. In merito abbiamo sentito il parere di Paolo Venturi, direttore di
Aiccon (Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit), il centro studi promosso dall’Università di Bologna. Che a giorni, a metà febbraio, chiuderà le iscrizioni per la terza edizione del corso di alta formazione
“L’innovazione nelle imprese cooperative e sociali”, in partenza a marzo. (
http://www.eticanews.it/2014/02/da-operatori-a-imprenditori-sociali/)
Sembra che per la «nuova» impresa sociale ci siamo…
Semplificando, gli approcci al tema sull’impresa sociale sono due: uno minimalista, che riduce l’impatto della legge sull’impresa sociale al perimetro, diciamo, delle organizzazioni non profit, della cooperazione sociale; e uno più ampio, ed è quello che sposo, secondo cui questa è una possibilità che abbiamo di impattare fortemente su tre grandi aree. Tenendo presente che non esiste niente, oggi, in Italia, che abbia un potenziale paragonabile a quello dell’impresa sociale.
Quali sono le aree d’impatto dell’impresa sociale?
Nella logica dello sviluppo, che è cosa diversa dalla crescita e significa aumentare il grado di protagonismo di qualcuno che produce valore, l’impresa sociale può impattare sul non profit, sul profit e sulla Pubblica amministrazione. Partiamo dal non profit. Se si dice, come prevede l’emendamento Bobba, che le organizzazioni non profit che ne hanno i requisiti non hanno la facoltà ma l’obbligo di qualificarsi come imprese sociali, si rompe la dicotomia tra market e non market. Tutte le realtà del non profit produttivo che sono di fatto imprese sociali, dunque, diventano consapevolmente e formalmente impresa sociale. Ed entrano in una logica di produzione diversa.
Quanto all’impatto sul profit?
La cosa interessante, qui, è che la legge, corretta dall’emendamento Bobba, diventa inclusiva del potenziale di risorse, come i capitali “pazienti”, che sono disponibili per investimenti in mercati che non hanno un’alta redditività ma che hanno un futuro. Perché la domanda pagante si sta spostando da altri settori a quelli sociali. Quindi la previsione di una remunerazione del capitale, seppure “cappata”, è indispensabile.
E sulla Pubblica amministrazione?
La parte dell’emendamento Bobba che riguarda la governance, che permette in qualche modo anche a soggetti pubblici, che danno risorse, asset e quant’altro, di partecipare alla gestione dell’impresa sociale, crea le condizioni anche per gestire il grande tema dei beni comuni. Con nuovi veicoli privati a finalità sociale che internalizzano la Pubblica amministrazione.
Cosa cambierebbe o aggiungerebbe all’emendamento?
Non mi fa impazzire il riferimento al regime fiscale delle Onlus, perché a mio avviso il “motore” non sta lì, intendo negli incentivi. Sta invece nella semplificazione, nell’omogeneizzazione, nella spinta sui tre ambiti di cui dicevo. Se dovessi fare un’aggiunta, penserei agli incentivi in materia di lavoro che hanno le start-up innovative a vocazione sociale. Il motore dello sviluppo dell’impresa sociale, in ogni caso, sta soprattutto nel passaggio culturale da operatore a imprenditore sociale.
In questo senso come siamo messi? C’è già una classe di imprenditori sociali?
È un settore che, anche alla luce degli
ultimi dati, presenta una densità e un’accumulazione crescente di giovani e di competenze, specie nelle imprese sociali di nuova costituzione. Quindi sono molto fiducioso. Ma strumenti e leve per coltivare questo capitale umano non possono essere quelli di una volta: occorre ad esempio cambiare la logica delle reti, passando da reti, diciamo, di rappresentanza o identitarie, a reti per l’innovazione e l’imprenditorialità. Anche la visione deve cambiare: l’internazionalizzazione, ad esempio, è un tema che di per sé, all’interno di un’impresa sociale, seleziona il capitale umano.
Con quale taglio affronta questi temi la terza edizione del vostro corso in partenza a marzo?
Quest’anno l’idea è costruire il tema dell’innovazione anche recuperando temi che stanno fuori dal modello tradizionale di impresa sociale. Provando a mettere le mani su quelli che sono i meccanismi generativi dell’innovazione, che dev’essere radicale e di rottura, come il momento attuale richiede, e non semplicemente incrementale. Ad esempio: nuovi luoghi, dato che l’innovazione oggi accade in nuovi luoghi, come la prossimità fisica, che è un meccanismo generativo di innovazione benché viviamo in un mondo sempre più connesso. Pensiamo a tutto il tema degli hub, del co-working, della rigenerazione dei community asset, che saranno oggetto di questo corso. E poi: il rapporto coi sistemi di comunicazione e narrazione, come sistemi di riproduzione dell’innovazione. E ancora: i nuovi strumenti per la raccolta di risorse finanziarie.
In chiave europea, come si presenta l’impresa sociale che sta prendendo forma?
Mi pare che l’emendamento Bobba anche in quest’ottica sia molto ragionevole quando propone di trasformare di default le cooperative sociali in imprese sociali: agli occhi dell’Europa ciò semplificherebbe molto il quadro. Anche se non sono dell’idea di chiudersi solo all’interno della forma cooperativa, è un dato di fatto che noi siamo stati i primi in Europa, proprio con la legge sulla cooperazione sociale, a istituire e promuovere l’impresa sociale. E credo che del modello della cooperazione sociale non si sia ancora pienamente compreso il potenziale a livello europeo. Per cui io sarei molto coraggioso nel promuoverlo al di fuori dei nostri confini, anche perché è un modello che produce occupazione, che sa assorbire e conservare capitale umano in un modo che altri ancora non hanno neppure iniziato a capire. Da questo punto di vista in Europa abbiamo senz’altro tantissimo da insegnare. Ma abbiamo anche da imparare molto: se non si è aperti non si avanza di un millimetro, perché la contaminazione è il presupposto per qualsiasi innovazione.
Il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea potrebbe essere un’occasione per «spingere» sull’impresa sociale?
Senz’altro. Il nostro governo deve cogliere l’occasione di rilanciare l’impresa sociale come modello, a partire dalla nostra esperienza. Bisogna tenere presente una cosa: noi produrremo occupazione non più sulla manifattura, su settori tradizionali, ma in settori come il sociale, la cultura, il turismo, l’ambiente, su cui si farà fatica a intervenire con modelli tradizionali for profit o pubblici. Dobbiamo costruire nuovi veicoli di impresa per non perdere il potenziale di sviluppo del nostro Paese, che in quei settori ha asset non delocalizzabili, che nessuno ci può copiare. Il nostro potenziale sta lì. E l’impresa sociale è il modello più adeguato per sfruttarlo.
Andrea Di Turi