Se la concentrazione del reddito è alta e crescente, la concentrazione delle ricchezze lo è ancora di più.

Il recente rapporto della Banca d’Italia sui Bilanci delle famiglie italiane ha portato all’attenzione generale il problema delle crescenti disuguaglianze, problema che si va a sommare a quello, a tutti noto, della perdurante recessione economica. Siamo dunque un Paese che non solo produce sempre meno reddito, ma in cui i divari tra “ricchi” e poveri” sono crescenti.

Agli studiosi e agli osservatori più attenti era noto da tempo che l’Italia fosse un Paese ad alta disuguaglianza di reddito: confrontandoci con i paesi europei di pari o simile livello economico (Francia, Germania, Spagna) l’Italia risultava quello con le disuguaglianze interne più pronunciate; l’indice di Gini, la più diffusa misura sintetica di disuguaglianza, o, per meglio dire, di concentrazione, che va da un minimo di 0 (massima uguaglianza: tutti gli individui hanno lo stesso reddito) ad un massimo di 1 (tutto il reddito nazionale è concentrato nelle mani di una sola persona), in Italia è storicamente più alto rispetto ai paesi europei più sviluppati, fatta eccezione per il Regno Unito, accomunato con gli Stati Uniti da una tradizione di stato sociale poco esteso e quindi poco in grado di redistribuire il reddito.

Nei primi anni della crisi economica l’indice di Gini continuava a salire, ma lo faceva in misura così contenuta da non destare particolare allarme e attenzione. Il problema della disuguaglianza sembrava meno grave del problema del declino del reddito medio; cioè il problema non era tanto come venisse tagliata la torta (del reddito nazionale) ma il fatto che la torta stesse diventando sempre più piccola. Ma quando la torta diventa troppo piccola, allora il fatto che a qualcuno ne spetti una quota molto ridotta diventa un problema serio, perché le fette più piccole diventano così piccole che con queste si muore di fame.

In un contesto di un paese che si impoverisce (globalmente) una distribuzione diseguale fa sì che molte persone scivolino sotto la linea della povertà, non solo relativa, ma anche assoluta: molte persone non ce la fanno più a condurre una vita minimamente dignitosa. A questa considerazione se ne aggiungano poi altre due: se anche l’indice di Gini è salito di poco ogni anno, la somma di tanti piccoli aumenti genera, in un arco di tempo di qualche anno, un aumento consistente e sensibile; poi, l’indice di Gini, anche se è una misura significativa di diseguaglianza, è comunque un indice “sintetico” e quindi non dice tutto: in Italia ci sono stati movimenti di reddito all’interno della popolazione che l’indice di Gini non è stato “tecnicamente” in grado di cogliere appieno.

Le conseguenze di un aumento della diseguaglianza, specie in un contesto di povertà, sono molte e drammatiche: come detto prima, un numero crescente di persone scivola al di sotto di un livello di reddito in grado di permettere una vita dignitosa. Poi, le condizioni stesse della democrazia vengono messe in crisi: ad un “potere economico” crescente non può non corrispondere in qualche misura un proporzionale “potere politico”. La legislazione, l’attività di governo vengono sempre più influenzate da una minoranza che detiene una frazione percentualmente sempre più grande di ricchezza. Inoltre, il deteriorarsi delle condizioni di vita di chi invece aveva raggiunto una certa agiatezza (ciò che accade a molti componenti della “classe media” in Italia) alimenta sentimenti di rancore, di qualunquismo e gruppi sempre più estesi di persone diventano facile preda di movimenti populisti, quando non fascistoidi (gli spostamenti elettorali, già avvenuti o previsti in tutta Europa, dimostra abbastanza chiaramente quest’ultimo punto).

Anche se di tutto questo processo (calo del PIL e aumento della disuguaglianza) non si vede la fine, esso è comunque in atto da un numero tutto sommato limitato di anni (quattro o cinque) per cui potrebbe essere considerato “di breve periodo”, e dunque destinato in qualche modo ad invertirsi: i cicli economici sono caratteristici della storia economica moderna, e a periodi di crisi sono seguiti periodi di espansione. E’ pur vero però che non si può rimanere a braccia conserte, aspettando l’inversione del ciclo economico: sul piano umano, sociale, civile e politico anche solo un altr’anno duro come questi ultimi si pagherebbe carissimo. Non sappiamo quale sarà l’esito pratico delle recenti parole del Presidente Napolitano al Parlamento Europeo, in cui ha invocato un allentamento della morsa dell’austerità. Ci auguriamo però che un qualche esito ci sia, che l’Italia sappia trovare alleati per concordare un allentamento della schiavitù del debito, che impedisce qualunque politica “espansiva”.

Qui non si vuole dire che il fardello del debito pubblico debba essere allegramente aggirato, ottenendo una specie di salvacondotto per non onorare i propri impegni: un’Italia che faccia crescere o decida di non pagare il suo debito causerebbe conseguenze gravi a livello di credibilità futura (chi presterebbe ad un paese che non ripaga i suoi debiti?), di stabilità finanziaria europea (molti investitori privati e pubblici europei possiedono debito italiano) e anche di riduzione del patrimonio nazionale (buona parte del debito italiano è comunque detenuto da famiglie italiane). Si vuole sostenere invece che, se l’Italia – ma anche altri paesi europei in analoghe situazioni – avesse la possibilità di fare opere pubbliche di utilità collettiva (per esempio il risanamento territoriale), dando lavoro a chi lo ha perso, di ridurre le imposte sul lavoro e sull’impresa, la domanda interna potrebbe crescere e il prodotto nazionale risalire.

In questo modo anche il rapporto debito/PIL (che è una misura più importante del debito in sé) potrebbe scendere. Così avrebbe respiro la finanza pubblica nazionale e se ne gioverebbero, di fatto, i possessori, italiani ed europei, del debito pubblico italiano. E soprattutto riprenderebbe l’economia nazionale e ne trarrebbe beneficio anche l’economia reale di molti paesi europei (se l’Italia aumenta il suo reddito, molti paesi europei potrebbero aumentare le esportazioni verso l’Italia).

Tutto questo comporta una scommessa, certo, perché nel breve periodo potrebbe esserci un aumento del disavanzo; ma non è una prospettiva folle e visionaria, i benefici di medio e lungo periodo sono prevedibili in una ragionevole logica economica. Al momento certo sembrano prevalere altri indirizzi, forse per un dogmatismo economico di altro segno, più probabilmente per un certo “egoismo” politico-economico dei paesi che questi problemi stringenti non li hanno: perché i paesi del centro e nord Europa, che non hanno problemi di finanza pubblica, dovrebbero “rischiare”, concedendo credito, in senso letterale e figurato, ai poco virtuosi paesi mediterranei? Forse lo faranno se il persistere, se non il peggiorare, della condizione attuale dovesse mettere a rischio la loro stessa economia (alla lunga, non giova avere attorno a sé paesi che si impoveriscono) e causare il dilagare di movimenti nazionalisti e antieuropeisti, anche nel cuore degli stessi paesi “ricchi”.

C’è dunque speranza che, prima o poi, le politiche europee diventino più lungimiranti e consentano politiche economiche “espansive”. Ma certamente, perché queste possano essere accolte e perché abbiano effetto duraturo sull’economia, è necessario che le proposte che verranno fatte all’Europa contengano azioni intelligenti; in primis una spesa pubblica che si indirizzi verso gli investimenti, e che diano lavoro nel breve periodo ma anche generino ricchezza nel lungo: il risanamento del territorio, si è detto, ma anche investimenti nelle energie rinnovabili, su cui l’Italia è molto indietro, nell’istruzione, nella ricerca e sviluppo, in cui invece in Italia si è tagliato. E’ altrove che bisogna tagliare – i ben noti anche se spesso non ben definiti “sprechi”- non certo sulle voci che possono migliorare la competitività dell’Italia. Certo poi sono necessarie le “riforme strutturali” di cui tanto si parla (snellimento della burocrazia, miglioramento del sistema giudiziario, ecc.), ma è nostra opinione che esse da sole non bastino all’uscita dalla crisi.

E la disuguaglianza in tutto questo? Abbiamo auspicato e ipotizzato una strada per la ripresa dell’economia, ma non è detto che con la ripresa di per sé le disuguaglianze si riducano. Le politiche dovrebbero essere al tempo stesso espansive ed egualitarie: le opere di pubblica utilità, ove mai dovessero essere fatte, dovrebbero impiegare con priorità coloro che il lavoro lo hanno perso; la riduzione delle imposte sul lavoro e sull’impresa, che da tante parti vengono auspicate per favorire la ripresa, dovrebbero però essere accompagnate da un inasprimento delle imposte sulle transazioni finanziare e sulle rendite, almeno sulle più grandi.

Infatti, una dimensione della disuguaglianza italiana ancora più significativa di quella riguardante i redditi riguarda la ricchezza e i patrimoni: se la concentrazione del reddito è alta e crescente, la concentrazione delle ricchezze lo è ancora di più. Ora, come ricorda in un libro di recente uscita l’economista francese Piketty, il valore dei patrimoni supera di molto il valore dei redditi: questo accade dappertutto, ma in Italia con un’intensità particolare e crescente. Quindi tutti quegli squilibri, le problematiche sociali, politiche di cui abbiamo detto parlando delle disuguaglianze dei redditi, sono moltiplicati parlando di disuguaglianze di ricchezza.

Certo, è un tema delicato, in cui bisogna rifuggire da rigide categorie ideologiche: piccoli patrimoni privati, finanziari o immobiliari, sono spesso il frutto di risparmi dell’attività di lavoro e l’aumento dell’imposizione fiscale su di essi risulta odioso e anche dannoso in una fase come quella attuale (in quanti casi il reddito dei giovani è sostenuto dal risparmio accumulato dei genitori?). Ma le grandi ricchezze, i grandi patrimoni sono un discorso diverso, spesso generano grandi posizioni di potere e sono il frutto non del proprio lavoro ma di una trasmissione intergenerazionale, cioè dell’accumulazione delle generazioni precedenti (il patrimonio si tramanda molto più del reddito) e quindi consentono la trasmissione di tali posizioni di potere, o quantomeno di privilegio, configurando quindi delle vere e proprie elite o oligarchie, lontane da qualunque concetto di meritocrazia.

In Italia il patrimonio è tassato assai meno che nella media europea: uno spostamento dell’imposizione fiscale dal lavoro alla rendita, operato con le cautela sopra dette, cioè lontani da ogni “giacobinismo”, potrebbe sanare questa anomalia italiana, liberando risorse per le attività produttive, contribuendo ad una possibile soluzione dei due mali congiunti dell’Italia attuale, il calo del reddito e la crescita delle disuguaglianze.

di Roberto Iorio, economista persso l’università di Salerno

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