Il cantiere per la revisione della legge sull’impresa sociale si è aperto, anche formalmente, con la proposta di emendamento al D.Lgs. 155/06 presentata nei giorni scorsi. In merito, dopo l’intervista al presidente di Gruppo Cgm, Stefano Granata, ETicaNews dà spazio all’opinione di un altro esperto di imprenditoria sociale, Davide Zanoni, partner di Avanzi, società di consulenza sull’innovazione per la sostenibilità, think tank, incubatore di imprese sociali, spazio per il co-working e altro ancora. Una delle realtà, insomma, che per prime e più attivamente si è mossa in Italia nella sperimentazione di un nuovo modo possibile di fare impresa, ispirato alla sostenibilità e all’innovazione sociale. (http://www.eticanews.it/2014/02/giu-il-cuneo-per-limpresa-sociale/)


La revisione della legge sull’impresa sociale può dare la scossa che serve all’economia sociale?

In linea generale, non credo molto nell’attività normativa come stimolo per muovere le forze del mercato nel settore del sociale. Nel caso specifico, però, c’è una legge che, nonostante dal punto di vista dei contenuti non sia stata concepita male, ha dimostrato in questi anni di non funzionare. Principalmente perché le organizzazioni che già erano attive nell’economia sociale, penso alle Onlus o alle cooperative sociali, non hanno avuto convenienza ad acquisire la qualifica di impresa sociale. La revisione della legge, dunque, dovrebbe avere fra i principali obiettivi quello di dare una veste giuridica unica, non come forma ma proprio come titolo, alle imprese sociali.


Qual è la sua opinione sulla proposta di emendamento presentata nei giorni scorsi?

Prende in considerazione le criticità più importanti. Ritengo giusto, per esempio, imporre l’obbligatorietà di assumere lo status di impresa sociale a tutte le tipologie di organizzazioni che operano nell’ambito dell’economia sociale: ciò coglie un’esigenza che il sistema stesso esprime e potrebbe conferirgli maggiore omogeneità e organicità. Sul tema forte della distribuzione degli utili, invece, l’emendamento avrebbe potuto essere anche più coraggioso, perché credo sia necessario arrivare a un’uniformità, ponendo un limite alla remunerazione dei capitali investiti nelle imprese sociali che sia uguale per tutte le forme giuridiche. Su un altro elemento fondamentale, il regime fiscale, la proposta prevede di riconoscere la natura di Onlus di diritto alle imprese sociali: il regime fiscale delle Onlus, però, pensato in riferimento alle realtà del non profit e non per le imprese sociali, per queste ultime a mio avviso non ha molto senso, perché non è un regime idoneo o stimolante per imprese sociali di capitali.


Dal punto di vista fiscale, allora, cosa sarebbe auspicabile?

Anche nell’ottica dello sviluppo del Paese, e del mercato del lavoro, penso si dovrebbe lavorare fortemente su incentivi legati a sgravi del costo del lavoro. Per esempio, una riduzione forte, anche nell’ordine del 50%, del cuneo fiscale: potrebbe dare un notevole impulso all’impresa per creare lavoro. Allo stesso tempo, per i lavoratori che si avvicinano al sociale sarebbe una sorta di riconoscimento del fatto che mettono le loro competenze al servizio di un’attività a sfondo sociale. Sarebbe un modo per essere innovativi, anche. Altra ipotesi: si potrebbe ragionare su un regime di apprendistato esteso alle imprese sociali.


Oggi come guardano all’impresa sociale gli investitori? Cosa si potrebbe fare per rendere l’investimento in imprese sociali più attraente?

Gli investitori potenziali al momento dicono che questa asset class in sostanza non esiste. E fino a quando non saremo in grado di delineare una domanda chiara di investimenti, sia dal punto di vista della definizione di cos’è l’impresa sociale, sia da quello degli eventuali benefici per gli investitori, la situazione non penso cambierà. Inoltre, mentre per quanto riguarda gli strumenti di debito una domanda di finanza per l’economia sociale comincia a esserci, manca ancora una vera domanda di investimento sul fronte dell’equity. Per muovere il mercato dei capitali per l’impresa sociale, si potrebbero per esempio prevedere detrazioni significative a favore di chi investe in imprese sociali, che siano almeno pari a quelle previste per chi investe in startup innovative.


Guardando all’Europa, l’Italia ha più da insegnare o da imparare in quest’ambito?

In Europa, come ha confermato il recente evento di Strasburgo, tutti ci riconoscono la forza del nostro modello cooperativo. È giusto, perché la cooperazione sociale è una vera “macchina da guerra”, in termini di organizzazione, di risultati economici e occupazionali che riesce a raggiungere, anche negli ultimi anni segnati dalla crisi. E riesce a farlo grazie anche a una legge ottima, quella sulla cooperazione sociale, che su alcuni aspetti è anche più avanzata di quella sull’impresa sociale sebbene cronologicamente l’abbia di molto preceduta. La cooperazione sociale a Strasburgo è stata assolutamente protagonista. Tutto questo, però, è senz’altro una grande forza, ma può essere un limite altrettanto forte.


In che senso?

È un limite se si ragiona nell’ottica di un modello di impresa sociale che possiamo definire laico. Mi spiego: la domanda di investimenti, per esempio, che viene dal mondo della cooperazione, è ben definita e ha dei canali già ben strutturati. Ma al mondo della cooperazione i potenziali investitori in imprese sociali non guardano di solito con particolare favore, poiché in alcuni elementi caratteristici della cooperazione, come il modello di governance, vedono più problemi che opportunità. Al di fuori della cooperazione sociale, intanto, per i motivi anzidetti il mondo delle “Pmi sociali” che stanno nascendo ha enormi difficoltà nell’accedere alle risorse di cui ha bisogno. In questo senso il passaggio a un modello di impresa sociale, per così dire, più laico, potrebbe avere effetti positivi.


Che ne pensa di strumenti nuovi di raccolta di risorse, come il crowdfunding, in riferimento alle imprese sociali?

L’Italia è molto avanti essendo stata fra i primi a elaborare una legge sull’equity crowdfunding in riferimento alle start-up innovative. Ma non si capisce perché si è deciso che la nuova impresa non possa essere anche non-tecnologica, cioè impresa sociale punto e basta. E non si possa estendere il discorso delle piattaforme di crowdfunding, e delle agevolazioni e degli incentivi previsti per le start-up, anche alle nuove imprese sociali tradizionali. Si può creare nuova impresa, non dimentichiamolo, anche coi modelli di business orientati al sociale che fanno un uso tradizionale delle tecnologie. Il crowdfunding è un esempio di come l’Italia sia per certi aspetti avanti, rispetto ad altri Paesi europei, ma spesso non riesca a muoversi in modo organico.


«Innovazione sociale» è oggi un’espressione di gran moda, quello che si dice una «buzzword». Ma come si può definirla?

Perché non perda di senso, credo si debba definire l’innovazione sociale nel modo più restrittivo possibile. Per esempio: è appropriato parlare di social innovation riguardo alle imprese? Credo sia difficile per le imprese promuovere innovazione in modo così distruttivo e radicale da cambiare effettivamente i modelli di comportamento. L’innovazione sociale, invece, deve avere una forza di cambiamento importante, per arrivare a modificare i comportamenti. Deve avere orizzonti di lungo periodo. E deve partire dal basso, perché partendo dal basso è subito in grado di esprimere una visione di vero cambiamento e gli attori che si muovono al suo interno, che sono coinvolti nel processo d’innovazione, sono particolarmente motivati. In quanto per loro quel cambiamento è fondamentale.

Andrea Di Turi

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