Il metodo della sussidiarietà e la logica dei beni comuni rappresentano una sfida dell’innovazione sociale e istituzionale. E pongono domande cruciali sulla possibile trasformazione dei rapporti civili ed economici. Come sono cambiati i rapporti tra economia e società con la crisi economica e la diffusione di pratiche di cittadinanza attiva? Si stanno imponendo forme alternative di scambio e reciprocità? Quali sono la consistenza e il valore economico del fenomeno nel nostro Paese? Come e quando si è sviluppato? Si può già parlare di nuove forme di integrazione tra economia e società o l’Italia è ancora all’inizio di un cammino? Esistono modelli emergenti capaci di generare nuova progettualità sociale, politica ed economica? (
http://www.labsus.org/2014/01/condividere-il-nuovo-verbo-delleconomia/)
Vittorio Ferla
Possiamo parlare di servizi che, pur nella loro diversità, hanno dei valori e delle modalità operative comuni e che prediligono l’accesso al bene invece della proprietà, la fiducia invece della diffidenza, la filiera corta come alternativa a quella lunga e così via.
In primo luogo, occorre sottolineare che le attività del Terzo settore cominciano a rappresentare un enorme giacimento di valore anche economico. Secondo una ricerca abbastanza recente realizzata da UniCredit Foundation e dall’Istituto di ricerca Ipsos, intervistando 2.104 organizzazioni del settore non profit, il terzo settore in Italia ha un giro d’affari di circa 67 miliardi di euro, un fatturato pari al 4,3% del Pil, superiore all’intero settore della moda made in Italy. L’indagine stima in oltre 650mila il numero di persone impiegate nel Terzo settore, con un incremento nel decennio di circa il 35%. Secondo la ricerca, “considerando un valore medio di entrate pari a 286.000 euro e un numero di istituzioni non profit pari a 235.232, possiamo stimare l’impatto economico del settore in termini di entrate pari a 67,276 miliardi di euro, pari al 4,3% del PIL. Giusto per avere un termine di paragone: nel censimento Istat 2001 sulle istituzioni non profit (dati 1999) le entrate rilevate erano pari a 37,762 miliardi di euro pari al 3,3% del PIL”. Ovviamente, parliamo di una indagine fondata su dati Istat ormai superati. Ma ci offre il segno di una tendenza che va monitorata con l’aiuto del censimento recente.
Negli Usa, il sito
indipendentsector.org ha calcolato che il controvalore di mercato di un’ora di lavoro gratuito è in media di 21,79 dollari. La stima ha l’obiettivo di riconoscere anche economicamente quanto il non profit pesa sull’economia, e ora è offerta alle charities proprio per far valere quanto quotidianamente fanno per la comunità. Negli Stati Uniti, conosciuti come la patria del liberismo selvaggio, i numeri del volontariato sono, in realtà, impressionanti: secondo l’Agenzia federale americana (
Corporation for National and Community Service) che coordina gli AmeriCorps (paragonabili ai nostri volontari in servizio civile), i volontari americani sono circa 63,4 milioni (il 26% della popolazione) e prestano 8,1 miliardi di ore di lavoro non retribuito, per un controvalore nel 2010 calcolato in 173 miliardi di dollari.
L’economia della collaborazione
Il Terzo settore – anche guardando in proiezione ‘americana’ – risulta dunque un segmento importante della nostra società, potenzialmente in grado di accrescere le capacità del sistema produttivo nonostante il perdurare della crisi economica. Le particolarità del suo capitale sociale e la capacità di creare reti e relazioni sul territorio lo candidano a divenire protagonista di nuovi assetti dell’economia e della società. Ecco che diventa urgente studiare il fenomeno sempre meglio e costruire un sistema di valutazione nazionale. Anche perché, nonostante la progressiva importanza del fenomeno, il Terzo settore non gode ancora di una adeguata rappresentazione mediatica.
I servizi collaborativi digitali
Ma c’è di più. E riguarda i contenuti di questi beni relazionali che spesso diventano veri e propri servizi attraverso i quali si condividono utilità. Basti pensare alla quantità di beni, materiali e immateriali, che si scambiano, nella rete come nella vita reale. Cresce il numero di persone che condividono la casa o l’orto, la macchina o i vestiti, mettono in comune le competenze o scambiano il proprio tempo. Aumenta il numero di cittadini che si incontrano attraverso
servizi collaborativi digitali di ogni genere: dallo scambio di alloggi per le vacanze, o di oggetti, o di servizi. Esistono hub digitali capaci di offrire una serie di servizi che non si ha il tempo o la possibilità di fare: dal fare le pulizie a farsi portare la spesa a casa, servizi virtuali, fare shopping al tuo posto, organizzare un evento, fare donazioni o qualsiasi altra cosa ti venga in mente. Se non hai tempo di farlo tu, ci sarà qualcuno che ha tempo. Oppure, esiste un’esperienza come The Hub, un network globale di spazi riservati ma condivisi per lavorare, conoscere altre persone, imparare cose nuove, creare reti di collaborazione e far decollare i propri progetti: l’
Hub di Roma si presenta come “una rete di spazi fisici dove imprenditori, creativi e professionisti possono accedere a risorse, lasciarsi ispirare dal lavoro di altri, condividere idee innovative, sviluppare relazioni utili e individuare opportunità di mercato”.
Verso l’economia dell’accesso e della fiducia
Insomma, si moltiplicano quei soggetti della società civile – a cavallo tra la dimensione sociale e quella imprenditoriale – che mettono direttamente in contatto le persone ed eliminano l’intermediazione delle strutture commerciali, finanziarie, istituzionali tradizionali, proponendo nuovi modelli di consumo. Alcuni qualificano questi servizi come pezzi di un movimento di consumo collaborativo. Altri preferiscono parlare di economia della condivisione. In attesa della migliore definizione, possiamo parlare di servizi che, pur nella loro diversità, hanno dei valori e delle modalità operative comuni e che prediligono l’accesso al bene invece della proprietà, la fiducia invece della diffidenza, la filiera corta come alternativa a quella lunga e così via. Figli della crisi economica e delle tecnologie digitali, questi servizi oggi sono in forte crescita e aprono opportunità per gli individui e per la società intera, ben al di là, a volte, delle tradizionali organizzazioni di terzo settore.
Una nuova dimensione del ‘pubblico’
Se è vero che una pratica diffusa nell’economia della condivisione è l’offerta di spazi privati (camere da letto di ricambio, spazio nella propria auto) per il consumo pubblico, è altrettanto vero, allora, che in queste esperienze i confini tra ‘pubblico’ e ‘privato’ sono sempre più porosi. Lavoro, consumo, partecipazione, attivismo sono sfere sempre meno separate della vita quotidiana. E, attraverso la fluidificazione di questi confini, nell’attuale contesto di crisi, possono esprimere progettualità sempre più interessanti. I nuovi comportamenti emergenti non sembrano tendere semplicemente al raggiungimento e/o al mantenimento di livelli di vita e di benessere adeguati, ma sono connotati da un’esplicita assunzione di responsabilità soggettiva nei confronti dei beni comuni e delle conseguenze del proprio agire di mercato. Questi comportamenti promuovono nuove forme di consumi, di organizzazione del lavoro e di partecipazione civile. E anche per questo meritano di essere monitorati e diffusi.