Intere regioni (quelle dove si estrae il petrolio) sono in fiamme e sono più di mezzo milione gli sfollati costretti a lasciare le loro case dai violenti combattimenti tra soldati governativi e ribelli. E anche l'accordo tra le parti in conflitto firmato poche ore fa ad Addis Abeba potrebbe non portare la pace. La testimonianza a Popoli.info di una nostra fonte che vive e lavora a Juba. (http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Cessate_il_fuoco_in_Sud_Sudan_ma_l_emergenza_continua.aspx)

«Nel Sud Sudan la situazione umanitaria è gravissima. Tre città (Bor, Malakal e Bentiu) sono state rase al suolo dalle continue offensive e controffensive di esercito e ribelli. A Juba la situazione è apparentemente tranquilla, ma la brace arde sotto la cenere e le popolazioni nuer (l’etnia che sostiene la ribellione contro i dinka al potere) denunciano dure repressioni nei loro confronti». Non è un quadro confortante quello tracciato da una fonte che vive e lavora nella capitale Juba, contattata questo pomeriggio da Popoli.info.

Nel Paese, nato solo due anni fa staccandosi dal Sudan, gli sfollati sono ormai mezzo milione, su una popolazione di otto milioni di persone. Le zone più colpite sono le regioni petrolifere e, in particolare, Upper Nile e Jonglai. «In queste aree – continua la nostra fonte, che preferisce mantenere l'anonimato – nessun operatore umanitario può entrare perché i combattimenti sono violentissimi. Le città sono state distrutte, bruciate, saccheggiate. I morti sono migliaia». Negli ultimi giorni i combattimenti si sono spostati anche nello Unity e anche qui è difficile per le Ong intervenire in modo efficace a favore della popolazione.

Ma anche a Juba la situazione è tutt’altro che calma. «È vero, in città non ci sono combattimenti e non si vedono molti militari per le strade. Solo davanti ai palazzi pubblici ci sono ancora mezzi blindati. La situazione dei nuer però non è tranquilla». Molte persone dell’etnia si sono rifugiati nei compound delle Nazioni Unite per cercare protezione e denunciano continue minacce da parte delle popolazioni dinka. Se il governo di Salva Kiir ha finora rispettato queste zone franche, negli ultimi giorni sta cambiando atteggiamento. Qualche giorno fa, un ministro si è presentato davanti a un compound dell’Onu scortato da uomini armati. Pretendeva di entrare con i suoi miliziani. I funzionari dell’Onu si sono rifiutati di far entrare armi nella zona protetta. Dopo un forte diverbio, il ministro è entrato da solo. Questo incidente ha alimentato la propaganda governativa secondo cui l’Onu, proteggendo i nuer, protegge anche i ribelli.

Di fronte a questa situazione le Ong fanno ciò che possono. La cosa positiva è che esiste un coordinamento tra le organizzazioni presenti sul territorio e che si sono potuti dirottare i fondi che erano stati stanziati per le alluvioni (che lo scorso anno hanno compiuto disastri) sull’emergenza guerra. Qualche progetto viene portato avanti, ma la guerra limita molto gli spostamenti. Anche il Jrs, il Servizio dei gesuiti per i rifugiati, ha recentemente deciso di congelare i suoi progetti in Sud Sudan, proprio perché impossibilitato a portarli avanti a causa delle violenze.

«I colloqui tra governo e ribelli in corso in questi giorni ad Addis Abeba - conclude la nostra fonte, prevedendo che è successo in serata - probabilmente porteranno a un cessate-il-fuoco. Questo però non significa che gli scontri termineranno. Molte milizie comandate da leader locali continueranno a scontrarsi tra loro, portando instabilità nel Paese. È quanto succedeva già prima dello scoppio della guerra e si teme possa ripetere anche dopo un'eventuale intesa».

Enrico Casale

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