Strategie globali. I meccanismi “di mercato” non sono sufficienti. L'Ue approva il proprio "Libro bianco clima-energia" al 2030, che auspica una riduzione delle emissioni del 40% rispetto al 1990 che scontenta gli ambientalisti. Da Altreconomia di gennaio 2014, l'approfondimento sul mercato delle emissioni, mentre in tutto il mondo aumentano gli “eventi estremi” -come il tifone che ha devastato le Filippine-. Ma anche l'ultimo summit per ridurre le emissioni -Cop19 a Varsavia- non ha dato i risultati sperati. (http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4450)

di Luca Martinelli

Il protocollo di Kyoto non può niente di fronte alla crisi climatica: le emissioni di CO2 nell’atmosfera continuano ad aumentare, e nel 2012 hanno toccato i 34,5 miliardi di tonnellate, con un incremento del 52% rispetto al 1990, considerato l’anno di “riferimento”, quello -cioè- in base al quale calcolare le riduzioni attese (per l’Italia, ad esempio, sarebbero del 6,5% rispetto al 1990). La colpa è -in parte- dei Paesi che non hanno ratificato l’accordo globale sul clima, dalla Cina agli Stati Uniti, e che dovrebbero essere inclusi, invece, nel nuovo accordo globale sul clima, quello che dal 2015 dovrebbe prendere il posto del Protocollo firmato negli anni Novanta nella città giapponese ed entrato in vigore nove anni fa, il 16 febbraio del 2005. Ma i negoziati -coordinati dalle Nazioni Unite, United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc, unfccc.int) annaspano. A fine novembre, a Varsavia, si è tenuta Cop19 (www.cop19.gov.pl), cioè la conferenza annuale che riunisce i Paesi aderenti al Protocollo di Kyoto (Conference of Parties), da cui è emerso un clima di sfiducia rispetto alla possibilità di chiudere il negoziato nei prossimi due anni, entro Cop21, che si terrà a Parigi. Ma il tempo a disposizione è sempre meno.

Un paio di mesi prima di Cop19, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) aveva diffuso il suo “Quinto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici” (a sei anni dal precedente, che nel 2007 era valso all’organismo nato in seno alle Nazioni Unite il premio Nobel per la pace), che riconosce fondamento scientifico a ciò che la cronaca evidenzia ormai quasi ogni giorno: il periodo 1983–2012 “probabilmente” è il trentennio più caldo degli ultimi 1.400 anni; gli eventi estremi sono sempre più frequenti; “molto probabilmente” il tasso medio di diminuzione della calotta glaciale in Groenlandia è aumentato da 34 gigatonnellate (Gt) all’anno nel 1992-2001 a 215 Gt/anno nel 2002-2011; è “estremamente probabile” (al 95-100%) che più della metà dell’aumento osservato della temperatura superficiale dal 1951 al 2010 è stato provocato dall’effetto antropogenico sul clima (emissioni di gas-serra, aerosol e cambi di uso del suolo). Il riassunto dei contenuti del rapporto dell’Ipcc è di climalteranti.it, il sito curato dal professor Stefano Caserini (per noi ha scritto “Imparare dalle catastrofi”, 2012), in un articolo firmato anche da Sergio Castellari, Focal Point Ipcc per l’Italia.

Questo Quinto rapporto Ipcc evidenzia anche che in assenza di riduzioni delle emissioni di gas serra, la temperatura media globale potrebbe aumentare fino a 5,4 gradi entro il 2100.

Mentre Varsavia si preparava a Cop19, nelle Filippine il super-tifone Haiyan faceva 6.009 vittime (oltre a circa 2mila dispersi), lasciando senza casa 4 milioni di persone, ma la tragedia non ha scosso più di tanto i negoziatori. Né è riuscita a spostare un’agenda che, secondo la società civile internazionale presente in Polonia, era pesantemente influenzata dall’azione di alcune lobby, capaci di dettare la linea. In particolare, l’industria energetica, responsabile del 42,3 per cento delle emissioni globali nel 2012. “L’Ue è ostaggio del governo della Polonia e dei suoi amici dell’industria del carbone -ha spiegato il direttore di Greenpeace International, Kumi Naidoo, spiegando così la scelta delle ong, che hanno abbandonato i negoziati-: da questa morsa deve svincolarsi per tornare a guidare l’agenda sul clima se a Parigi, nel 2015, vogliamo che si dia vita a un accordo significativo”. A margine della Cop19 di Varsavia, l’International Energy Agency (Iea) ha pubblicato il World Energy Outlook: nel 2012, le fonti fossili hanno ricevuto sussidi per 544 miliardi di dollari, contro i 101 che sono andati al settore delle energie rinnovabili.

Se volesse, banche, governi e istituzioni finanziarie internazionali, saprebbero dove e come intervenire, sembra suggerire l’Iea, e invece proseguono spediti lungo la propria strada, lasciando allo stesso tempo che la lotta ai cambiamenti climatici sia “ostaggio” di meccanismi di mercato, come il Clean Development Mechanism previsto dal Protocollo di Kyoto (in pratica, realizzo un progetto green in un Paese del Sud del mondo per continuare ad inquinare in quello dove ha sede un impianto della mia azienda) o il mercato europeo delle emissioni, Emission Trading Scheme (Ets). Questo riguarda solo i 27 Paesi dell’Ue, responsabili dell’11% del totale della CO2 finita in atmosfera nel 2012, e garantisce alle industrie più inquinanti -cioè la siderurgia, la produzione elettrica, il settore della carta e quello del cemento, tra gli altri- un volume annuale di “permessi”, veri e propri titoli di emissione che possono essere scambiati sul mercato.

Solo che negli ultimi anni, complice la crisi economica che ha rallentato la produzione, questi soggetti hanno avuto a disposizione, a titolo gratuito, un “portafoglio” di titoli di emissione ben superiore alla quantità di CO2 prodotta. In Italia, ad esempio, negli anni tra il 2009 ed il 2012, le imprese le cui attività ricadono all’interno dell’Emission Trading Scheme hanno “avanzato” oltre 100 milioni di tonnellate di CO2, un bel che oggi sul mercato viene scambiato a 4-4,5 euro la tonnellata. Ciò significa che al valore attuale questi permessi, che fino al 2012 erano rilasciati gratuitamente alle aziende sulla base di un piano di progressiva riduzione delle emissioni autorizzate, valgono tra i 400 e i 450 milioni di euro. “Certificati” nella disponibilità di soggetti che si chiamano Eni, Enel, Edison, Italcementi, Ilva, solo per fare alcuni nomi.

Circa un terzo del mercato italiano è gestito da EcoWay (www.ecoway.it), una società che si occupa di consulenza e di trading, fondata nel 2003 da Guido Busato, un passato in Banca Etica e in Etica sgr: il fatturato della società, che nel 2009 era di 32 milioni di euro nel 2013 raggiungerà i 600, il 93% del quale legato alla compravendita di titoli di emissioni, i certificati Ets. Secondo Busato, “il modello finanziario dev’essere considerato uno strumento, e non un fine”. Proprio per questo, “è vero che molte aziende europee in situazione di avanzo hanno utilizzato i certificati per generare liquidità. Non tutti, però, si comportano allo stesso modo -racconta Busato- perché ogni anno l’allocazione di titoli è più restrittiva, e gli obiettivi di riduzione delle emissioni più stringenti. Di conseguenza, stiamo consigliando ad alcune aziende di conservare in portafoglio i permessi a emettere”.

Meglio, cioè, conservare i “diritti d’inquinamento” in portafoglio, per un giorno in cui la domanda -di energia, di benzina, di cemento, di carta, di prodotti siderurgici- tornerà a crescere.

Secondo Busato, l’efficacia del sistema ruota intorno al prezzo di ogni tonnellate di CO2 scambiata sul mercato: “Se devo cambiare il mio processo tecnologico, e per farlo mi servono 25 milioni di euro d’investimento, ma il costo della CO2 per le emissioni del mio impianto inquinante è di 21 milioni di euro, allora sarà conveniente per me acquistare certificati piuttosto che investire sull’efficientamento dei miei processi produttivi. Al contrario, il costo dei permessi è superiore all’investimento in tecnologie più pulite sarà incentivato a propendere per queste ultime”.

È nel lungo periodo, però, che alzando gli obiettivi di riduzione e abbassando il numero di certificato in circolazione, il meccanismo cerca di facilitare cambio di meccanismo tecnologico. “Probabilmente il legislatore non ha potuto prevedere -spiega Busato- la crisi che ha colpito la produzione industriale europea negli ultimi anni, ma non si possono non considerare gli effetti positivi di uno strumento che nel lungo periodo permetterà di ridurre le emissioni globali”. Alcune decisioni prese nel corso dell’ultimo biennio provano a funzionare da correttivi: nel 2012, le aziende del settore termo-elettrico hanno dovuto iniziare ad acquistare i crediti di emissione, partecipando ad aste pubbliche. Per questo settore, cioè, i “crediti di emissione” costano, e non sono più allocati liberamente dalla Commissione europea.

A dicembre 2013, poi, il Consiglio europeo ha votato una piccola “manovra”, scegliendo di congelare -tra il 2014 e il 2020- la vendita all’asta di 900mila tonnellate di permessi di CO2, “per aumentare il prezzo e incoraggiare le imprese a investire in innovazioni a basse emissioni di carbonio”, come spiega un comunicato del Parlamento europeo.

Anche se i meccanismi di mercati faticano a registrare un impatto positivo contro i cambiamenti climatici, l’unico passo in avanti significativo registrato a Varsavia è quello sull’implementazione del meccanismo Redd+, che sta per “Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation” e in pratica rappresenta un nuovo mercato intorno alle foreste, a un “capitale naturale” che possiedono, in larga parte, i Paesi del Sud del mondo. Come abbiamo raccontato su Ae 154, la finanza globale -che a fine novembre ha promosso ad Edimburgo il primo Forum mondiale sul capitale naturale- cerca di metter le mani su questo nuovo asset, e anche l’Ue si appresta ad approvare -entro il 2015- una Direttiva sul commercio dei servizi degli ecosistemi. Nemmeno l’Italia resta a guardare: a dicembre, a Roma, il ministero dell’Ambiente ha promosso la prima Conferenza nazionale sulla biodiversità, in vista della elaborazione di una strategia nazionale. Secondo l’associazione Re:Common (recommon.org), che lavora su finanza e beni comuni, è indispensabile che essa “non preveda la possibilità di ricorrere a meccanismi compensativi, quali il pagamento dei servizi degli ecosistemi gestiti dal settore privato e commerciabili”. ---


Emissioni in vigna

Il settore vitivinicolo italiano si prepara alla nuova Direttiva sul commercio dei servizi degli ecosistemi, che la Commissione europea dovrebbe approvare entro il 2015: a metà novembre è nato “CO2 RESA” (www.co2resa.it), una sigla che sta per Registro delle emissioni del settore agro-alimentare, e che inizierà dal contabilizzare le emissioni in vigna e in cantina.

È un’iniziativa di Csqa Certificazioni e di Valoritalia, che è la società leader nel controllo del 70% della produzione di vino italiano a denominazione di origine, il cui obiettivo è monitorare “i progetti che portano alla riduzione delle emissioni rispetto a uno scenario di riferimento (baseline)” e che “generano crediti che possono essere scambiati sul mercato e acquistati da altre aziende che vogliono compensare le proprie emissioni di gas serra”.

Sono 5mila le aziende vitivinicole potenzialmente coinvolte. Per il momento, il riferimento è ai mercati “volontari” (quelli cui fanno riferimento i soggetti industriali Ue non sottoposti all’Emission Trading Scheme).

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