La produzione scientifica in materia d’impresa sociale si è tradizionalmente concentrata sugli aspetti definitori di questo modello d’impresa, individuando una forma istituzionale ad hoc di cui ha messo in luce gli elementi di peculiarità rispetto a forme organizzative e imprenditoriali più o meno prossime. (http://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/item/65-quel-che-unifica-le-diverse-forme-di-%E2%80%9Csocialit%C3%A0%E2%80%9D-dell%E2%80%99impresa.html)

In tempi recenti si è però assistito ad una sorta di “deistituzionalizzazione” dell’impresa sociale, o per meglio dire dell’esercizio sociale dell’attività d’impresa. Basti pensare, a solo titolo di esempio, all’evoluzione della responsabilità sociale d’impresa nell’ottica del “valore condiviso” che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, i processi produttivi di qualsiasi soggetto imprenditoriale. Oppure approcci più direttamente concorrenti a quello dell’impresa sociale, come il “social business” o la “social entrepreneurship” rispetto ai quali non si postula una forma istituzionale - e tantomeno giuridica - ad hoc. Si tratta piuttosto di processi che investono soprattutto la dimensione manageriale e che misurano la loro efficacia guardando soprattutto a ciò che scaturisce a valle dell’azione imprenditoriale in termini di output, outcome e soprattutto impatto sulle politiche e sulle forme di produzione.

Questa tendenza, fortemente sostenuta da una produzione scientifica e da un’azione formativa e di consulting che mobilita le competenze delle migliori business schools, sollecita gli apparati definitori e induce, sia sul fronte della ricerca scientifica che della divulgazione, a individuare gli elementi che differenziano i vari approcci. Ecco quindi un fiorire di mappe e tassonomie che scompongono il campo della produzione di valore sociale in regime d’impresa al fine di definire un quadro che appare sempre più segmentato al suo interno. Pur riconoscendo l’importanza di questi lavori che hanno il merito di indagare su fenomeni emergenti che travalicano le impostazioni affermate, va comunque evidenziato il rischio di assecondare una deriva che può portare a una sorta di “balcanizzazione” di quello che, a questo punto, non è possibile definire come un vero e proprio comparto di attività e tantomeno come una popolazione di imprese.

Da una parte, infatti, la definizione dell’impresa sociale come istituzione a se stante, se rimane ancorata ai caposaldi originari dei modelli cooperativi e nonprofit rischia di rimanere confinata in ambiti relativamente ristretti, non valorizzando un potenziale che, come dimostrato dai rapporti Iris Network sull’impresa sociale, esiste anche fra le imprese a scopo lucrativo. All’opposto l’affermazione di approcci di imprenditoria sociale che non riconoscono un quid di peculiarità anche a livello di assetti organizzativi e di governance rischia di generare non solo i già citati fenomeni di colonizzazione da parte di soggetti capitalistici in cerca di una nuova legittimità presso i propri interlocutori chiave, ma soprattutto di porre consistenti problemi di regolazione dei fenomeni di produzione sociale, in particolare di quelli che generano un impatto più evidente. La “crisi di successo” di alcune start-up di sharing economy ha proprio a che fare con la mancanza di forme istituzionali in grado di salvaguardare e valorizzare il carattere condiviso e manifestamente “sociale” di queste iniziative.

Da dove ripartire quindi? Da un superamento dell’approccio che marca le differenze per ricercare gli elementi che unificano le diverse forme di socialità dell’impresa e che possono essere riassunti nei punti seguenti.
  • La ricerca di una maggiore coerenza tra mezzi e fini dell’azione imprenditoriale rispetto alla quale commisurare le forme di coinvolgimento dei portatori di interesse.
  • Il carattere di interesse collettivo dei beni prodotti a partire attraverso processi di rendicontazione che mettano effettivamente in luce il loro carattere di meritorietà.
  • I meccanismi di produzione e redistribuzione della ricchezza, facendo in modo che le economie siano effettivamente poste a “cofinanziamento” delle finalità per cui l’impresa è costituita.

Quanto i punti appena citati si possano tradurre in strumenti di legislazione, oppure in semplici forme di autoregolamentazione, dipenderà dal contesto socio economico e normativo, oltre che dalle strategie adottate dai diversi soggetti che, sul campo, decideranno di intraprendere per scopi sociali. Di certo il dettato normativo italiano in materia di impresa sociale meriterebbe di essere aggiornato rispetto a tutti questi punti. In primo luogo garantendo un’effettiva, più ampia e consistente partecipazione dei portatori di interessi, non limitandosi a una mera informazione. In secondo luogo superando l’approccio che fa coincidere il carattere di utilità sociale della produzione con i settori di attività (la cui elencazione è sempre, prima o poi, insufficiente e parziale). Infine specificando con chiarezza il tetto alla redistribuzione della ricchezza generata, favorendo l’accumulazione di patrimoni che per le loro caratteristiche di inalienabilità si configurano come beni comuni.

A cura della redazione

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