«In regioni in cui l’agricoltura è ricca, i lavoratori migranti sono sfruttati all’inverosimile. È come se ci fosse un contratto collettivo dello sfruttamento che attraversa e accomuna le campagne del sud del Paese». Enrico Pugliese, docente di Sociologia del Lavoro presso l’Università La Sapienza di Roma, sintetizza in questo modo la ricerca da lui coordianta, sul caporalato nel mezzogiorno, e da poco pubblicata in volume da Ediesse con il titolo Immigrazione e diritti violati: i lavoratori immigrati nella cultura del Mezzogiorno. Il lavoro di ricerca ha riguardato tre regioni: Puglia, Calabria e Campania. (http://www.corrieredellemigrazioni.it/2014/01/06/uomini-o-caporali/)


Cosa accomuna questi territori?

«Un elemento comune è la coesistenza fra una agricoltura ricca e una manodopera povera. Si tratta in gran parte di terreni tradizionalmente ricchi e fruttuosi o, più frequentemente, di recente bonifica, magari valorizzati negli ultimi decenni, negli anni successivi al secondo dopoguerra, grazie ad una migliore irrigazione. Terre fertili, un tempo adibite al pascolo, in cui non ci sono mai stati insediamenti umani troppo fitti e con scarsi investimenti in campo industriale. Si è sviluppata un’agricoltura intensiva che richiede in determinati e limitati periodi dell’anno una forte presenza di manodopera».


E cosa li differenzia?

«Potremmo dire il contesto agricolo. Nel foggiano, per esempio, quella nota come la Capitanata è una zona con grandi estensioni di terreno, spesso con un’unica proprietà. I braccianti sono confinati in vere e proprie agrotowns, ghetti isolati per i braccianti dove il dominio dei caporali è totale. Dal controllo dei posti in cui dormire, al panino alle bottigliette d’acqua vendute a 2 euro l’una. Sono zone di raccolta prevalentemente estive che di inverno si svuotano e con l’arrivo della bella stagione vedono arrivare migliaia di lavoratori. In paesi come Villa Literno, Casal Di Principe, Castel Volturno, nel casertano, non mancano le grandi proprietà ma sono zone più densamente abitate, tanto da autoctoni che da immigrati. Esistono poi situazioni diverse anche legate al ciclo dell’agricoltura. Nella Piana di Gioia Tauro si lavora molto di inverno con gli agrumi ed è allora che si concentrano i lavoratori, anche lì le condizioni non sono né come nella Capitanata ma neanche come nel casertano. Certo che girare nelle diverse aree ci ha permesso di comprendere meglio gli elementi comuni meno evidenti».


Ad esempio?

«Il dato più emblematico è quello che abbiamo definito “Contratto nazionale del sottosalario”. In pratica ovunque tu vada, e al di là del prodotto che raccogli o delle ore in cui lavori, una giornata viene pagata fra le 20 e le 25 euro. Raramente di più. Una omogeneità che ormai è nota e tanto ai datori di lavoro che ai lavoratori. La differenza la fa il grado di taglieggiamento a cui ti sottopone il caporale. Ci siamo imbattuti in caporali realmente schiavisti e in poveracci che cercavano di garantirsi qualcosa in più. Ma all’origine non c’è il caporale, c’è l’impresa. I caporali partecipano parzialmente e garantiscono il sovra sfruttamento e il caporale in fondo è uno strumento. C’è una legislazione debole in materia che peraltro è anche male applicata. Le imprese al massimo possono essere sanzionate per favoreggiamento all’immigrazione clandestina, un reato che viene scaricato sui caporali. La legislazione maroniana è poi basata solo sul diritto penale verso i caporali, le imprese restano al riparo da tutto, spariscono se si apre un’indagine. Il contratto nazionale del sottosalario è in queste condizioni implicito».


Il ruolo del caporalato è cambiato negli anni?

«Sì, molto. Il caporale del passato, quando nei campi c’era soprattutto manodopera femminile autoctona, aveva meno potere. Magari c’erano anche quelli che tentavano di abusare delle lavoratrici, ma era diverso. Oggi il caporale fornisce mezzi di trasporto verso i campi e ha le informazioni necessarie per procurare il lavoro. Questo lo rende ancora più potente. I caporali, però, non sono tutti uguali. Ci sono quelli che ti forniscono a pagamento anche l’alloggio (degradatissimo), c’è chi è della stessa nazionalità dei lavoratori, ed è talvolta oggetto di invidia perché si vorrebbe prenderne il posto, oppure è considerato un benefattore perché garantisce il lavoro. C’è anche chi è un semplice semi caposquadra e si occupa solo dell’organizzazione del lavoro. C’è, in gergo, il “caponero” e il “caponero grosso”, figure che a volte coesistono e a volte no. Per l’impresa è fondamentale questo ruolo che è sia di raccolta di manodopera che di disciplinamento. L’impresa potrebbe (e dovrebbe) applicare i contratti che impongono non solo salari più alti ma anche la fornitura dell’alloggio, senza bisogno di figure di intermediazione. Ma ricorrere al caporale semplifica le cose e abbatte i costi. Due elementi stanno però modificando la situazione: il fatto che a lavorare nei campi si trovino sempre più spesso ex operai, che hanno perso il lavoro al nord e hanno un buon grado di sindacalizzazone e, poi, la maggiore diffusione di biciclette, che liberano dalla dipendenza per il trasporto nei campi».


Quanto incide in tutto questo il sistema dei prezzi imposto dalla grande distribuzione organizzata?

«La storia che la colpa è dei mercati in parte è una spiegazione, in parte un alibi. Di fatto al sud c’è lavoro sottopagato e ultra flessibile, a prescindere dalla Gdo, e questo è un elemento con cui fare i conti. Ed è possibile applicare il contratto di lavoro vero modificando qualcosa nell’organizzazione del lavoro, come dimostra, per esempio, l’esperienza del consorzio calabrese Equosud (https://www.facebook.com/equo.sud), che riesce a pagare un salario contrattuale saltando l’intermediazione. Pone ai propri soci due condizioni: i prodotti acquistati debbono essere biologici e frutto di un lavoro sindacalmente corretto. A coloro che non appartengono al Consorzio ma vogliono entrare permettono all’inizio una maggior tolleranza rispetto al marchio biologico (ci vogliono anni per poter avere prodotti adeguati), ma non transigono sulla questione del salario. In questo modo, tra l’altro, non mandano il caporale in galera, ma lo lasciano disoccupato».


Ma a partire da questa stagione e in queste condizioni, cosa si dovrebbe fare?

«La ricerca ci ha portato già ad evidenziare le zone in cui la presenza dello Stato è più carente. Quindi già ora non si dovrebbe poter più gridare all’emergenza. Si tratta di condizioni strutturali su cui predisporre interventi. Su queste basi si potrebbe cominciare a fornire ai braccianti servizi di informazione, trasporto e accoglienza per contrastare i caporali. L’esempio, anche se ancora quasi simbolico, degli “alberghi diffusi” in Puglia, e in provincia di Cosenza, grazie ad un buon lavoro sindacale, si è raggiunto un accordo sul trasporto, con un piccolo contributo che semplifica la vita dei lavoratori. Piccoli segnali ma che potrebbero costituire esempio di una politica generale che invece di investire sul penale e sulla repressione si potrebbe dedicare a chi lavora».

Stefano Galieni

Partner della formazione

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