Abbiamo deciso di dedicare uno spazio di condivisione e discussione agli “errori” nel fundraising: per farlo scegliamo di toccare argomenti che possono sembrare non direttamente attinenti al tema della raccolta fondi (non parleremo di strategie CIVES, ciclo del fundraising, scelta degli strumenti), ma sono in realtà strettamente connessi. (http://blog.uidu.org/2013/12/13/worst-practice-nel-fundraising-lorganizzazione-interna/#.UqrWPbR9TxQ.twitter)

Alberto Cuttica

Si tratta di aspetti più strutturali, ricorrenti nel variegato mondo del “nostro” nonprofit, che sarebbe un grave errore non considerare parte del complesso di attività, comportamenti, attitudini che compongono il fundraising.

Se il mese scorso abbiamo parlato di leadership e governance, e di quanto il loro stato di salute conti per un fundraising di qualità, questa volta ci dedichiamo ad un aspetto molto vicino: l’organizzazione interna dell’ONP.

L’assetto organizzativo è la spina dorsale di qualsiasi realtà strutturata: se consideriamo il fundraising uno sport che richiede allenamento costante, resistenza e buoni riflessi, capiamo quanto importante sia avere (o cercare di avere) una struttura solida ed equilibrata in grado di reggere lo sforzo e avere obiettivi di miglioramento… Non si pensi che di “organizzazione” si debba parlare solo nelle realtà di certe dimensioni.

Anche una piccola organizzazione, per funzionare e perseguire la propria “buona causa”, ha bisogno che il lavoro, i propri processi interni, le persone, non siano gestiti in base all’urgenza costante del momento e grazie (solo) all’immancabile entusiasmo che anima sempre le persone, i volontari in particolare.

Si tratta di un concetto intuitivo e (a parole) sempre condiviso da tutti: nella pratica quotidiana, passando dal dire al fare, mi trovo di fronte a realtà che invece faticano a maneggiare il concetto di “organizzazione”, nella convinzione, spesso anche ammessa esplicitamente, che sia un argomento troppo “aziendale” e quindi di per sé incongruente con spirito e valori del Terzo Settore. Ebbene la realtà è diversa, quasi opposta. Proprio per “valorizzare i propri valori”, fare davvero un servizio a beneficio della collettività, occorre – per certi versi – ragionare in termini aziendalistici, senza che questo sia vissuto come un compromesso “scomodo”, uno sforzo che non si vede l’ora di cessare.

Occorre dare spazio, con serena disponibilità ed apertura, anche ai temi che attengono l’organizzazione del lavoro. Senza di essa diventa tutto più complicato e soprattutto si corrono, fra gli altri, due rischi abbastanza diffusi: la difficoltà di programmare qualsiasi attività e quella di trattenere e motivare adeguatamente lo staff e i volontari, la cui voglia di fare da sola non basta a supplire a mancanze più strutturali.

Prima di passare ad un esempio più concreto, vale la pena ricordare uno dei principi di base del fundraising: esso non serve a coprire le inefficienze dell’organizzazione, ma a raggiungere la mission dell’organizzazione nonprofit e a supportare i suoi progetti. In questo principio/assunto di base, sta proprio ciò di cui parliamo: per evitare di disperdere parte delle risorse che ci affanniamo a ricercare occorre limitare le inefficienze e la mancanza di organizzazione rappresenta un serio campanello di allarme in questo senso.

Ho osservato recentemente due realtà interessanti, una con una lunga storia alle spalle e l’altra neonata, percorrere lo stesso cammino e imbattersi nello stesso ostacolo. Partite entrambe con grande volontà e diligenza per un percorso di costruzione di un piano di fundraising, impegnate in un’attenta scelta di strategie di raccolta fondi finalizzate alla sostenibilità delle loro azioni, si sono trovate entrambe, dopo pochi mesi, alle prese con un aspetto che avevano inizialmente sottovalutato: la quasi totale assenza (o per meglio dire l’esistenza solo abbozzata, neanche mai formalizzata) di ruoli e funzioni all’interno delle proprie realtà.

Questo ha inciso pesantemente sulla prosecuzione del loro percorso di fundraising e ha fatto emergere (non senza una certa preoccupazione per il futuro) un problema prima ignorato: se non si definisce “chi fa cosa”, “chi decide cosa”, qualsiasi attività – compresa quella di raccolta fondi strutturata – è destinata ad andare poco lontano.

Entrambe le realtà sono spontaneamente arrivate ad una conclusione piuttosto interessante: la decisione di iniziare un’attività “seria” di fundraising era dovuta all’insostenibilità finanziaria di una condizione raggiunta anche a causa di carenze sul versante organizzativo (l’esatta negazione del principio del fundraising sopra citato).

La storia non ha per il momento un finale: le due organizzazioni (che cito insieme perché molto diverse fra di loro per storia, dimensioni, ambito di intervento) ora stanno dedicando la loro attenzione e il loro sforzo a disegnare un assetto organizzativo. Hanno cominciato a pronunciare alcune parole prima bandite dal loro vocabolario: funzioni, competenze, responsabilità, controllo. Vogliono – e io sono molto d’accordo con loro e riconosco questa volta un certo merito alla loro governance – fare le cose gradualmente, con giudizio e consapevolezza della propria storia e dei propri valori, senza cadere nell’eccesso opposto: scoprire la moda degli “indicatori di performance” un tanto al Kg., tanto diffusa ovunque dal privato, al pubblico.

La mia certezza è che questo, che rappresenta un “intoppo” imprevisto nella loro volontà di fare fundraising, sia in realtà una grande opportunità di crescita e di cambiamento culturale. Assunta la convinzione che non si tratta di snaturare se stessi, ma solo di dare a se stessi forma e sostanza insieme (pur con qualche sofferenza e malumore interno dovuto alla sindrome del “abbiamo sempre fatto così…”), avranno le spalle più larghe e la schiena più dritta anche per il fundraising.

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