L’anno che volge al termine è stato dichiarato dalle istituzioni europee “Anno europeo dei cittadini” e mai come in questo momento la scelta è stata opportuna. La crisi economica che ha investito l’Europa, il divario che si è determinato tra i cosiddetti paesi “virtuosi” e i “non virtuosi”, l’euroscetticismo latente che riaffiora nei diversi progetti di referendum di uscita dall’euro e il populismo che mira a far ricadere sull’Europa le inefficienze delle classi politiche degli stati membri non sono che alcune delle vicende che negli ultimi anni hanno avviato una riflessione sulle finalità del processo di integrazione europea. (http://www.labsus.org/2013/12/leuropa-come-bene-comune-il-nuovo-statuto-della-cittadinanza-europea/)

Maria Cristina Marchetti

Troppo spesso davanti all’Europa delle banche e della finanza si è smarrito il senso di un progetto che, al contrario, trovava nella nozione di beni comuni il suo motivo ispiratore.

Le elezioni del Parlamento europeo del 2014 saranno un importante banco di prova per la democrazia europea. Lo slogan scelto, “Agire. Reagire. Decidere” tende a sottolineare che tutto quanto si deciderà a Bruxelles dovrà nel futuro essere espressione della volontà dei cittadini, la grande risorsa dell’Europa, e di coloro che portano avanti nelle pratiche di vita quotidiana il processo di integrazione.


L’Europa come bene comune

Negli ultimi anni, troppo spesso davanti all’Europa delle banche e della finanza si è smarrito il senso di un progetto che, al contrario, trovava nella nozione di beni comuni il suo motivo ispiratore: mai più la guerra sul territorio dell’Unione implicava il riconoscimento implicito che la pace è un bene comune da difendere a qualsiasi costo. La pace è infatti il bene comune per eccellenza, del quale o si gode in comune o non si gode affatto; non può essere barattata, venduta, ma solo difesa e condivisa.

Dal lontano dopoguerra i passi in avanti sono stati molti e il processo di integrazione ha evidenziato in maniera ancora più forte un dato di fatto che era insito nel progetto originario: nessuno si salva da solo. Che si tratti di pace o di ambiente, di terrorismo o di lotta alla criminalità organizzata, di occupazione o energia, nessuno stato, per quanto ricco e potente, può riuscire da solo ad affrontare queste sfide.

Ecco allora che riemerge lo spirito “comunitario”, l’idea che il superamento dei particolarismi individualistici, lasci il posto al riconoscimento del fatto che il futuro o è in comune o non è. La stessa scelta operata dai padri fondatori di iniziare il processo di integrazione europea mettendo in comune le risorse energetiche trae origine dall’idea che queste risorse non potevano più costituire oggetto di contesa (basti pensare al bacino carbonifero della Ruhr).
In questa prospettiva, dagli allargamenti alla politica ambientale, dalla difesa dei consumatori fino alla stessa unione monetaria sono tutti passaggi che è possibile leggere come altrettanti modi di declinare l’idea originaria di un’Europa come bene comune.


L’identità comune europea

L’idea di guardare al progetto europeo come un bene comune consente anche di superare una delle questioni più controverse: il tema dell’identità comune europea. Negata da molti, in nome della rivendicazione di un particolarismo culturale in chiave euroscettica, l’identità comune sembrerebbe riemergere quando ci confrontiamo con l’esterno come europei e in particolare con l’altra faccia della cultura occidentale, rappresentata dal mondo anglosassone d’oltre oceano. Secondo Habermas è possibile individuare alcuni tratti comuni che al di là delle differenze fanno si che “gli altri spesso vedono in noi non tanto il Tedesco o il Francese quanto l’Europeo”.

Egli individua così alcuni elementi che possono essere considerati fondativi dell’identità europea: 1) la secolarizzazione; 2) la fiducia nelle capacità di governo dello Stato e lo scetticismo nei confronti delle prestazioni del mercato; 3) la disillusione nei confronti dei progressi della tecnica; 4) la preferenza per le garanzie di sicurezza dello Stato del benessere; 5) il rifiuto della violenza; 6) la fiducia in un ordine internazionale multilaterale, congiunto a un’effettiva politica interna mondiale sotto l’egida dell’Onu”. Non si tratta di etichette di facciata, ma di principi, modi di vivere, valori che negli anni hanno trovato un’eco nelle scelte politiche e nel modo di intendere il proprio ruolo di cittadini.


Luci e ombre del processo di integrazione europea

L’ottimismo di fondo che caratterizza tale prospettiva non può non tenere conto delle tante ombre che hanno contrassegnato il processo di integrazione europea. La stessa fase fondatrice è stata il risultato della volontà di élites politiche che, per quanto illuminate e lungimiranti, non hanno consultato i popoli europei. Questo vizio di fondo è rimasto una caratteristica del processo di integrazione europea che rimane un processo top down che solo in seconda battuta prevede il coinvolgimento dei cittadini. Solo dal 1979 il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale da tutti i cittadini europei e sarà necessario attendere l’Atto unico europeo (1986) e il Trattato di Maastricht (1992) per riequilibrare i rapporti di potere tra le istituzioni che compongono il “triangolo istituzionale europeo”.

A tutt’oggi non esistono partiti politici europei nel senso pieno del termine; le modalità di voto variano da paese a paese e le stesse procedure per la ratifica dei trattati o per l’adesione di un nuovo stato membro non sono le stesse per ogni stato membro. Con gli anni le istanze economiche hanno preso il sopravvento sulle altre, relegando il ruolo dei cittadini in secondo piano, rispetto alla volontà delle istituzioni anche se non sono mancati tentativi di riequilibrare tale divario. Nel 1992 in concomitanza con l’istituzione dell’unione monetaria, quasi a riequilibrare i piani, fu istituita la cittadinanza europea; con l’art. 10 del Trattato di Lisbona la democrazia partecipativa trova un primo riconoscimento, in particolare mediante l’introduzione dell’Iniziativa dei cittadini europei. Non sono che alcuni esempi delle possibili strade da seguire per recuperare lo spirito originario del progetto.


La cittadinanza europea oltre i diritti: i cittadini come risorsa

La cittadinanza europea è uno dei punti di forza del processo di integrazione e il primo riconoscimento ufficiale del ruolo dei cittadini. Come ha affermato Viviane Reding – Vicepresidente e Commissaria per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza – “la cittadinanza dell’Unione è il fiore all’occhiello dell’integrazione europea e rappresenta, per l’Unione politica, quello che l’euro rappresenta per l’Unione economica e monetaria”. Allo stesso tempo però, la stessa cittadinanza europea, così come è concepita, presenta ancora dei limiti in termini di inclusività e partecipazione. Essa infatti garantisce una serie di diritti ai cittadini degli stati membri – primi fra tutti la libertà di movimento e di voto – ma non prevede nessuno strumento per valorizzare il ruolo che essi svolgono nel rafforzamento del processo di integrazione europea.

Rispolverando il motto kennedyano – “non chiedere cosa il tuo paese farà per te, ma cosa tu puoi fare per il tuo paese” – e declinandolo su scala europea, sembra giunto il momento di domandarsi cosa i cittadini europei possono fare per l’Europa. In realtà non è necessario inventare nulla di nuovo, sia in termini di politiche che di progettazione, ma di valorizzare ciò che già esiste, attribuendo alle tante iniziative intraprese dai cittadini il giusto ruolo nel processo di integrazione. Si tratta in pratica, come spesso ci piace ricordare sulle pagine di questa rivista, di considerare i cittadini come una risorsa e non come i destinatari passivi di politiche che calano dall’alto.

Da questo punto di vista potrebbe essere interessante che l’Europa facesse proprio il principio di sussidiarietà orizzontale così come previsto dall’art. 118, comma quarto della Costituzione italiana. La grande novità di questo articolo è infatti quella di spostare l’attenzione dalle pratiche di democrazia partecipativa, ancora legate ad un processo top down voluto dalle istituzioni politiche per legittimare il loro operato, alla valorizzazione del ruolo dei cittadini attivi, che costituiscono una risorsa implicita, capace di attivarsi anche senza un intervento istituzionale.

Sembra impossibile che tale modalità d’azione possa trovare applicazione a livello europeo, ma non mancano gli esempi. “Responding together” è un progetto, del quale ci siamo occupati sulle pagine di questa rivista, cofinanziato dalla Commissione europea e dal Consiglio d’Europa, finalizzato a mobilitare i cittadini a livello locale per ridurre la povertà e l’esclusione sociale. Come si legge nella presentazione del progetto, in un contesto di crisi, quando gli strumenti convenzionali sono insufficienti ad affrontare la complessità di situazioni di impoverimento e aumento delle disuguaglianze, è possibile sperimentare azioni concrete, utilizzando risorse disponibili a livello locale in modi alternativi. In pratica, i cittadini diventano una risorsa per la soluzione di problemi collettivi.

 

L’Iniziativa dei cittadini europei: la forza delle reti


Un esempio dello spirito europeo è anche l’esperienza vissuta proprio in questo anno da parte dei promotori delle prime Iniziative dei cittadini europei. Istituita dal paragrafo quattro dell’art. 11 del Trattato di Lisbona, l’Ice è uno strumento di democrazia partecipativa che permette ad un milione di cittadini di partecipare allo sviluppo delle politiche europee, chiedendo alla Commissione di presentare una proposta di legge su un tema ritenuto di interesse generale.

Il primo anno di vita dell’Ice ha registrato tre importanti successi: Right to Water, Uno di Noi e Stop alla vivisezione sono riuscite nel difficile obiettivo di raccogliere un milione di firme. Il segreto del successo di queste Ice va ricercato nella forza delle reti della società civile europea che le hanno sostenute e anche le Ice che non ce l’hanno fatta sono riuscite a sensibilizzare la politica europea sui loro temi.


L’altra Europa

Le proteste di questi giorni in Bulgaria e Ucraina lasciano sperare che lo spirito europeo abbia ancora una capacità di attrazione a dispetto dei suoi detrattori e delle tante forme di euroscetticismo e populismo che attraversano il continente. Come ha scritto in un articolo apparso su EUobserver Dimitar Bechev, direttore dell’ufficio di Sofia dello European Council on Foreign Relations, un’Europa pacificata non dice molto a giovani che non hanno vissuto la guerra, né serve a rinvigorire il progetto europeo la promessa di un benessere che sembra ormai un miraggio che si allontana per tutti. L’Europa però è ancora capace di stimolare un senso civico che porta in piazza milioni di cittadini contro istituzioni corrotte e autoritarie.

In una fase di delegittimazione della politica, i cittadini, non le istituzioni sono i veri custodi del patrimonio comune europeo. La politica rischia di restare a guardare e come afferma Barbara Spinelli in un articolo apparso su La Repubblica del 4 dicembre a proposito della sinistra italiana, “enorme è la sua responsabilità, se mancherà l’occasione di reinventare sia la democrazia, sia l’Europa”. È un monito condivisibile ed estendibile alle istituzioni europee affinché non siano loro a tradire il progetto comune dei padri fondatori.

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