Intervista a Stefano Granata - Presidente del Gruppo cooperativo CGM. A cura di Oliviero Motta. I consorzi di cooperative sono chiamati a cambiare natura e ruolo: da incubatori d’imprese sociali ad agenzie di sviluppo dei territori. Gli ingredienti del cambiamento: aggregazione di servizi ai cittadini, nuovi settori d’impegno, link con la produzione di beni, forme giuridiche inedite. (http://www.lombardiasociale.it/2013/12/06/innovazione-dei-servizi-alla-persona-e-ruolo-dei-consorzi-di-cooperative/)

A metà novembre il Gruppo cooperativo CGM, il più grande e ramificato d’Italia – 949 cooperative, 43.000 lavoratori in tutto il Paese, 168.000 fruitori di servizi solo in Lombardia – ha promosso a Milano un appuntamento di due giorni per mettere al centro dell’attenzione l’innovazione sociale (FARE RETE). La convention ha rappresentato l’esito finale di un percorso di scouting dell’innovazione diffusa dentro la rete CGM, attraverso un progetto ad hoc e un bando: “Social innovation network”.

A proposito di innovazione e ruolo dei consorzi di cooperative, abbiamo intervistato Stefano Granata, presidente nazionale del gruppo CGM e promotore dell’iniziativa.


FARE RETE, promossa in collaborazione anche con Fondo Sviluppo, Fondazione Cariplo, UniCredit Foundation e Novamont, ha inteso scovare e premiare l’innovazione; ma cosa significa oggi innovazione dei servizi? Per quali strade passa, in particolare, quella nei settori della cura delle fragilità e della salute?

Dal nostro punto di vista, l’innovazione – anche nei servizi della cura e della salute - passa per tre movimenti principali che la cooperazione può compiere e in parte sta compiendo, almeno nelle grandi aree metropolitane, dove più visibili sono questi fenomeni. Il primo movimento è quello che porta a concentrare l’offerta di diversi servizi orientati a differenti destinatari. In particolare servizi rivolti da un lato più specificamente alla fragilità e, dall’altro, alla cittadinanza diremmo “regolare”. Pensiamo ad esempio ai Centri per la salute e ai Poliambulatori che aggregano l’offerta per la cura sanitaria a prestazioni rivolte alla generalità delle famiglie. La concentrazione dei servizi è ancora più efficace quando si avvale delle tecnologie informatiche, attraverso la creazione di portali che possono diventare strumenti di info-commerce ed e-commerce di servizi socio-sanitari, formativi, turistici, di conciliazione rivolti a tutte le famiglie.


La seconda strada?

Il secondo movimento è quello di puntare sulla creazione di link virtuosi e concreti con la produzione di beni materiali, magari nei campi più innovativi come quelli delle energie rinnovabili. Uno dei progetti vincenti di FARE RETE è stato “Energia solidale” del consorzio materano “La città essenziale”: una partnership tra mondo profit, cooperazione sociale ed ente pubblico per l’installazione di impianti fotovoltaici su tetti privati e pubblici, gestiti attraverso alcuni inserimenti lavorativi di persone svantaggiate. Ogni commessa sta generando ore d’assistenza domiciliare gratuita, donata ad anziani, disabili e minori, indicati direttamente dal condominio o dalle amministrazioni comunali. Un modo innovativo per linkare servizi alla persona, inserimento lavorativo e cura dell’ambiente, risparmiando risorse pubbliche.


In questo tipo di progetti pare fondamentale il ruolo della cooperazione di tipo B.

Sì, lo è. Possono rappresentare davvero un punto di svolta nella misura in cui si mettono in gioco in una dimensione diversa da quella dell’appalto pubblico o della dinamica bisogno-prestazione. D’altra parte le cooperative di tipo B che hanno saputo resistere nella crisi, ora sono un punto di riferimento e rappresentano dei volani anche per lo sviluppo di nuovi servizi alla persona. A Milano, ad esempio, penso a cooperative come “Spazio aperto” – del consorzio SIS – che sta promuovendo reti di prestazioni domiciliari come welfare aziendale presso i suoi partner profit, o come “Vesti solidale” – del consorzio Farsi Prossimo – che, grazie ai ricavi delle sue attività nell’ambito del riuso, sostiene lo start up di comunità protette nell’ambito della salute mentale.


E il terzo movimento?

E’ quello della promozione di servizi in “nuovi” settori, diciamo in settori non tradizionali per la cooperazione sociale: l’abitare sostenibile, la mobilità sostenibile, l’ambiente sostenibile. In questi settori sta maturando una domanda di “beni comuni” che la cooperazione può virtuosamente intercettare e tradurre in innovazione concreta per lo sviluppo e la qualità della vita delle proprie comunità di riferimento. Qui possono giocare un ruolo fondamentale i consorzi; penso ad esempio all’impresa sociale “Abitare sociale metropolitano” nuova e unica realtà dell’housing sociale milanese frutto della collaborazione tra quattro imprese sociali: Consorzio Farsi Prossimo, Consorzio Sistema Imprese Sociali, Cooperativa sociale La Strada e Cooperativa sociale Chico Mendes. La prima iniziativa di ASM, e cioè la gestione di “Maisondumonde36” – housing, socialità, inserimento sociale, commercio equo, bottega del riuso – è un esempio delle potenzialità aggregative e innovative dei consorzi quando escono dalla propria dimensione originaria.


Consorzi che promuovono Spa e imprese sociali, cioè enti di altra natura giuridica…

Sì, è solo un esempio di quel fenomeno che cominciamo a vedere ad occhio nudo qua e là per l’Italia e, naturalmente, in Lombardia: sono i cosiddetti ibridi. Cioè forme societarie “meticcie” che nascono spontaneamente e nelle quali la cooperazione sociale e i consorzi svolgono un ruolo di promozione, lievito, infrastruttura. Si tratta di srl, imprese sociali, spa, contratti di rete, fondazioni promossi aggregando cooperative con altri enti: associazioni, banche, enti pubblici, fondazioni, imprese private. Per ora ne abbiamo osservate 70 in tutta Italia e abbiamo stimato che la metà degli investimenti di tutta la nostra rete confluisce proprio qui, soprattutto nei settori della sanità leggera, dell’housing e dell’ambiente. In questa nuova prospettiva cambia sensibilmente e aumenta la dimensione del rischio, ma cresce anche la posta sul futuro. Innovazione dei servizi e quella della struttura giuridica e di governance vanno, non a caso, a braccetto.


Ma non c’è il rischio che lo specifico della cooperazione, in questo fiorire di Spa e imprese sociali, si disperda, si confonda?

Al contrario. La nostra vocazione originaria è proprio quella di favorire il benessere delle comunità, non di tenere per noi i nostri talenti. A noi sembra sempre più necessario che i consorzi interpretino un nuovo ruolo, perché il compito svolto tradizionalmente ci sembra da un lato compiuto e dall’altro non più attuale. I consorzi infatti hanno svolto in questi ultimi dieci anni un compito fondamentale di incubazione di nuove imprese cooperative, di sostegno al loro sviluppo attraverso l’offerta di strumenti, competenze e servizi, per lo più nella logica del general contracting. Ma, come accennavo sopra, da un lato questo ruolo ha portato molte cooperative sociali a un buon livello di maturità, dotate delle infrastrutture e delle competenze per avere un futuro autonomo e, dall’altro, la concentrazione sulla pura erogazione di servizi è ormai perdente. La cooperazione deve assumere un compito più ampio, recuperando una delle mission originali della cooperazione e cioè costruire benessere sociale.


Come potremmo descrivere questo nuovo ruolo?

Pensiamo che i consorzi debbano porsi, ciascuno nei propri territori di riferimento, come agenzie di sviluppo dei territori stessi. Perché, dopo vent’anni di crescita esponenziale, la cooperazione sociale deve registrare il fatto che i nuovi incubatori di attività imprenditoriali si trovano fuori dal proprio perimetro. Iniziative portate avanti da giovani, pensiamo ad esempio a tutto ciò che si muove attorno a “Make a change”, “Avanzi”, “Make a cube”; imprese leggere o addirittura business ideas, che potrebbero godere delle infrastrutture, della competenze e delle risorse che i consorzi hanno maturato negli ultimi anni. Da questo punto di vista le reti consortili possono svolgere un’azione molto significativa di catalizzazione e sostegno dello sviluppo di nuovi servizi per i loro territori.


Ma non si tratta di una riverniciata della buona vecchia idea dei consorzi, e in generale della cooperazione, come impresa di comunità?

Non proprio. L’idea dell’impresa di comunità, per altro assolutamente valida e per certi versi ancora attuale, ha il limite di essere troppo autoreferenziale; siamo ancora noi, insomma, che vorremmo assumere un ruolo centrale nei confronti delle comunità locali, con la nostra struttura e la nostra natura giuridica. Qui invece si tratta di cambiare ottica e di mutare ruolo: si tratta soprattutto di creare nuovi luoghi, luoghi terzi, in cui aggregare risorse e competenze per l’innovazione. Naturalmente siamo consapevoli delle grandi differenze che ci sono tra i territori, sia a livello nazionale che dentro una singola Regione; anche in Lombardia esistono differenze molto significative tra i consorzi, quanto a maturazione e orientamento al futuro. Ma la strada dell’innovazione passa per tutti da qui.


Per concludere, quali difficoltà e criticità potrà incontrare questo percorso?

Beh, come dicevo poco sopra, c’è un problema di differenti maturità delle compagini consortili. Trovo naturale una certa resistenza al cambiamento, soprattutto a livello di governance. Non è facile, per un presidente di cooperativa – quarantenne o cinquantenne, magari fondatore della propria impresa – “adattarsi” a entrare in questo movimento che effettivamente è, per così dire, centrifugo. Bisogna aprire la propria organizzazione e giocarsi in una dimensione più dinamica e aperta. La cooperazione vive qui un paradosso: rispetto a molti altri settori della vita italiana, ha leadership giovani, ma anch’essa ha un problema di ricambio e di rinnovamento. Fare spazio ai giovani, e quindi al futuro, è un problema che riguarda anche noi.

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