La moltitudine di immagini che rimbalzano dal Sudafrica è la testimonianza, più eloquente d’ogni parola, di ciò che ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà Nelson Mandela per il suo popolo e per ogni essere umano che sulla terra è discriminato per il colore della pelle e le sue convinzioni politiche e religiose. (
http://www.noidividas.it/2013/12/mandela-la-normale-grandezza-di-un-servitore-dei-popoli/)
Tra le tante, ci piace in particolare ricordare quelle che ritraggono la vita in uno dei sobborghi di Johannesburg, entro mura che è arduo definire stanze o case. Una giovane donna, la sola che conosca la lingua di chi intervista, l’inglese, non sfugge alle telecamere:
"Qui è dura, lo vedete bene, molto resta da fare. Occorrevano due vite a Madiba per risolvere i nostri problemi. Vent’anni sono pochi. Ma lui ci ha dato la dignità e il diritto a sperare".
Forse è in questo atto di accorata e “normale” testimonianza che si rintraccia l’umana grandezza del leader sudafricano. Si è parlato diffusamente, non poteva che essere così, delle sue lotte, dei suoi sacrifici, dei 28 anni, un’eternità, trascorsi nelle prigioni del suo Paese. Si è sottolineato il suo rifiuto ai compromessi, anche quando le condizioni mutate parevano giustificare un atteggiamento meno intransigente. Tutto ciò lo ha reso grande agli occhi del mondo e il tributo che gli viene da un intero pianeta è la misura della grandezza del personaggio.
Eppure nelle parole della povera donna del sobborgo di Johannesburg c’è forse il testamento più vero di Madiba, sin da quando giovanotto si ribellò ai riti della sua tribù che pretendevano di dargli in moglie la donna imposta da una barbara tradizione.
C’è il profilo di un uomo che ha indicato con il suo esempio un cammino, mai inteso come una méta da raggiungere, ma come una traversata che non deve mai avere fine perché non c’è libertà che si conquista una volta per tutte se non c’è giustizia sociale.
Un paio di giorni dopo la fine della sua prigionia, Nelson Mandela disse rivolto non solo al suoi connazionali festanti, ma a tutti gli uomini della terra:
"Sono qua oggi davanti a voi, non come un profeta, ma come un umile servitore del popolo. Metto i restanti anni della mia vita nelle vostre mani. In nome dell’eroica lotta del nostro popolo per instaurare la giustizia e la libertà, per tutti, nel nostro Paese".
Giuseppe
Mi chiamo Giuseppe Ceretti e ho fatto il giornalista per 40anni. Ho fatto, ma a dire il vero faccio, perché se ami questo mestiere non smetti mai. Potevo scrivere libri, ma poi mi sono chiesto se avevo davvero qualcosa di importante da dire. Risposta: no. Il sì’ l’ho invece detto all’amica Giovanna che mi ha chiesto se volevo diventare un volontario della penna per Vidas. Perché sì? Perché avevo qualcosa da dare a chi è solo e soffre. E poi a Giovanna, meglio alla signora Cavazzoni, non si può dire no. E se capiterà vi spiegherò la ragione.