Articolo di Alessandro Messina (FederCasse) pubblicato sul numero 10 della rivista Credito Cooperativo. Cosa ne è dell’economia civile al tempo della grande crisi? Certo occorre uscire dalle ambiguità. Nessuno può più confondere il grado di civiltà di una economia con quella piccola porzione di pur ampi utili - chissà come generati - devoluta ad opere filantropiche, come per anni è stata furbescamente interpretata la CSR (responsabilità sociale d’impresa). Così come non basta la matrice “senza scopo di lucro” a certificare la qualità sociale di certi processi produttivi. O il termine cooperazione a indicare un’impresa diversa, “senza se e senza ma”. (http://aiccon.it/ECONOMIACIVILECREDITOCOOPERATIVOMESSINA.html)

E’ tempo di uscire dalle banalizzazioni o anche dalle segmentazioni di comodo, che facilmente in Italia prendono la strada dei corporativismi, per comprendere la complessità di un’economia che possa essere al servizio del bene comune. E che sempre più necessita di soluzioni originali, costruite caso per caso, adattate ai contesti locali, sociali, ma non per questo non industrializzabili e dunque non efficienti.

E’ la frontiera dell’innovazione sociale, trasversale rispetto alla natura societaria delle organizzazioni produttive (pubbliche, private, profit o nonprofit). A Bertinoro è stato scelto il termine “ibridazione” per evocarla. Richiamando alla mente il contributo di Jean Louis Laville alla teoria dell’economia solidale, reinterpretandolo però non più come contaminazione tra settori economici separati che agiscono in filiera (il settore pubblico e il nonprofit) ma ad una vera e propria commistione di processi e forme di organizzazione dei fattori della produzione che vadano oltre gli steccati culturali tanto dell’impresa privata massimizzatrice di profitto quanto dell’organizzazione filantropica buona in sé.

Insomma: non è più tempo di valutare l’utilità sociale di una intrapresa economica solo sulla base della sua possibilità di distribuire i profitti (spesso a prescindere dalla capacità di realizzarne), o semplicemente dal suo assetto societario e di governance, oppure dall’oggetto dell’attività svolta, dai soggetti che la promuovono, o peggio ancora dall’abilità di comunicare le proprie buone intenzioni. La grande crisi, che è anche grande mutazione di fini e mezzi al servizio dell’attività economica, ha messo a nudo tutte le contraddizioni dei vecchi schemi.

In questi dieci anni abbiamo assistito ad almeno due grandi “tradimenti”. Il primo è stato quello della richiamata CSR, la responsabilità sociale di impresa. Che non è stata interpretata come processo di innovazione e cambiamento organizzativo, ma solo come avanzata - a volte neanche troppo - tecnica di marketing, pulizia più o meno approfondita dell’immagine aziendale. Tradendo così i suoi migliori sostenitori, le tante politiche pubbliche di sostegno che enti europei, nazionali , locali hanno promosso, i molti cittadini e stakeholder (il termine forse più abusato in questo contesto) che ci hanno creduto. Sgonfiati gli utili, spesso frutto di ardite e speculative strategie commerciali, a danno di consumatori e ambiente, si è sgonfiata la CSR. Di cui è rimasta solo una stanca convegnistica. Come ha dimostrato - per il comparto produttivo in cui ciò è stato più eclatante, quello bancario - anche il Forum CSR di ABI di poche settimane fa.

Il secondo tradimento del decennio è arrivato dal terzo settore. Da quello spazio tra stato e mercato, cioè, che avrebbe dovuto essere perno di un nuovo welfare, pronto a rispondere ad emergenti bisogni sociali e al contempo capace di creare nuovi bacini occupazionali. Erano queste le idee di Jacques Delors (Libro bianco della Commissione europea del 1992), di Jeremy Rifkin (La fine del lavoro, 1995), dello stesso Laville (L’economia solidale, 1998) e di tanti altri. Ma i dati presentati a Bertinoro mostrano un brutale rovesciamento di prospettiva: per ogni posto di lavoro guadagnato nel terzo settore, cresciuto di oltre il 39% in due lustri, se ne sono persi quasi due (1,92) nel pubblico impiego. Per di più, l’occupazione nonprofit è precaria per oltre il 30% dei lavoratori (contro il 4% della pubblica amministrazione).

Vecchi fantasmi riemergono. Le paure di chi negli anni ’90 temeva la crescita del terzo settore come grimaldello per lo smantellamento del welfare universalistico trovano argomenti quanto mai solidi. Mentre i lavori nonprofit sembrano tutt’altro che “scelti”, come suggeriva un fortunato volume di 15 anni fa.

Le prime vittime di questi tradimenti sono stati, ovviamente, i “persuasi”, come avrebbe detto Aldo Capitini. Coloro che hanno creduto in un’economia diversa e continuano a impegnarsi per realizzarla. Fra loro, molti lavoratori e qualche imprenditore, determinati ancora oggi ad abbattere steccati, a partire da quelli che abbiamo nella nostra testa.

Ecco perché è stato prezioso l’incontro di Bertinoro. Per ritrovarsi, uscire dall’isolamento, e riprendere slancio. Da un nuovo trampolino, quello dell’ibridazione.

Partner della formazione

ConfiniOnline fa rete! Attraverso la collaborazione con numerosi enti profit e non profit siamo in grado di rivolgere servizi di qualità a costi sostenibili, garantendo ampia visibilità a chi supporta le nostre attività. Vuoi entrare anche tu a far parte del gruppo?

Richiedi informazioni