Questo reportage fa parte di un progetto di data journalism realizzato nell’ambito del programma Innovation in development reporting, organizzato dal Centro di giornalismo europeo.

“Stavamo meglio prima che arrivassero i cinesi”, dicono senza troppi giri di parole i contadini di un villaggio nella provincia di Xai-Xai, una città nel sud del Mozambico che ai tempi del colonialismo portoghese si chiamava João Belo. In questa zona del paese, ventimila ettari di risaie cinesi hanno preso il posto di alcuni campi coltivati delle comunità locali ai margini del fiume Limpopo. “Abbiamo visto arrivare i trattori cinesi”, ricordano le donne della comunità di Dlhovukaze. “Hanno rimosso le nostre machambas (piccoli campi coltivati con metodi tradizionali), drenato i canali d’acqua e occupato le nostre terre”.

Parlando degli ottocento mozambicani assunti dall’azienda per lavorare sui terreni, gli abitanti della comunità locale riconoscono che ci sono degli effetti positivi. “L’investimento porterà lavoro agli abitanti dei villaggi”, afferma Mhula, avvocato della Lega mozambicana dei diritti umani, “ma il governo, prima di firmare l’accordo con gli investitori, avrebbe dovuto consultare la popolazione locale per accordarsi sulle modalità di trasferimento, invece di avvisarli a cose fatte”.

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Quello delle risaie cinesi ai margini del fiume Limpopo è solo uno dei 902 contratti transnazionali firmati in tutto il mondo tra governi e investitori per la cessione di terre, per un totale di circa 33 milioni di ettari. Ma quello degli investimenti per comprare porzioni di terra è un fenomeno che comprende molti aspetti, che è difficile da quantificare e che cambia di nome in base al contesto: il mondo accademico sceglie l’espressione neutrale di “acquisizione di terre su larga scala”, la società civile ne dà una connotazione negativa parlando di land grabbing (accaparramento delle terre), gli investitori preferiscono locuzioni ottimistiche come “opportunità di sviluppo” o “prospettiva win-win”.

Comunque si decida di chiamarla, la corsa alla terra comporta delle conseguenze che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle comunità e influenzano gli equilibri geopolitici dei paesi, generando un dibattito che coinvolge governi, banche, investitori privati, società civile, sindacati e – non ultime – le comunità rurali.

Questo dibattito dimostra che il crescente interesse per l’acquisto di porzioni di terra è dettato da problemi estremamente attuali, come l’aumento della popolazione mondiale e la crisi dei prezzi degli alimenti, avvenuta nel 2007-2008. Questi fenomeni hanno condotto alcuni paesi – soprattutto quelli arabi, che non dispongono di aree coltivabili – ad acquisire terre per rafforzare la loro sicurezza alimentare. Poi c’è il timore legato al riscaldamento globale, che ha motivato le politiche sulle energie rinnovabili di Stati Uniti e Unione europea e di conseguenza ha fatto crescere la domanda di terre da destinare alla produzione di biocarburanti. Timore a cui si aggiunge il crescente fabbisogno di materie prime del mondo industrializzato, soprattutto da parte di paesi emergenti come Cina e India, che ha sollecitato l’acquisizione di vaste superfici di terra da destinare all’esplorazione e all’estrazione mineraria.


Astronavi

A volte le terre acquisite dagli investitori stranieri sono marginali, disabitate, ma potenzialmente produttive. In altri casi si tratta di terre fertili abitate da comunità rurali che, nel caso in cui venga accordata la concessione, devono cedere il posto all’investitore, dando luogo al fenomeno descritto con il termine vagamente burocratico di displacement (trasferimento).

Non esistono stime sul numero di displacements. Esistono storie drammatiche, come quella delle comunità di Tete, una provincia nel centro del Mozambico. In questa zona le multinazionali del carbone hanno ottenuto i diritti di estrazione su un’area di 3,4 milioni di ettari, causando il trasferimento di più di 1.300 famiglie in zone talvolta prive di accesso al cibo e all’acqua. “I nostri campi non producono niente”, racconta Joia, abitante del nuovo villaggio di Mwaladzi, in una delle testimonianze incluse nel rapporto di Human rights watch. “Ci hanno dato delle case, ma non abbiamo da mangiare.”

Tutto questo succede nonostante la costituzione del Mozambico (articolo 109) sancisca che “l’uso della terra spetta al popolo mozambicano”. Inoltre, la legge del paese prevede che si svolgano tre consultazioni popolari per decidere le modalità di trasferimento della terra a un investitore privato. Ma come spiega Gizela Zunguze, ricercatrice di Justiça ambiental, un’organizzazione non governativa mozambicana per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità locali, le “consultazioni non sempre avvengono come dovrebbero”, perché non coinvolgono le comunità nel processo decisionale. “Gli investimenti potrebbero essere un fatto positivo per le comunità rurali” sostiene Gizela, “ma solo a patto che si applichi la legge, discutendo i progetti con le comunità locali e ottenendo il loro consenso”.

Di solito gli investitori cercano di convincere le popolazioni locali – e la società civile mondiale – che questi progetti favoriscono il benessere e riducono la povertà. Ma secondo Oxfam, una rete di organizzazioni non governative, “il 60 per cento dei soggetti privati che comprano porzioni di terra ha come obiettivo esportare tutto quello che produce”. Il Cirad, l’istituto di ricerca francese per l’agricoltura e lo sviluppo, rileva che la metà delle coltivazioni avviate non produce cibo (alcune, per esempio, producono biocarburanti). Quindi resta ben poco per sfamare le popolazioni locali, anche considerando che le terre sono spesso cedute a prezzi irrisori (sono stati registrati alcuni casi in cui l’affitto di un ettaro costa all’investitore tra i 70 centesimi di dollaro e i cento dollari all’anno, per contratti di leasing di cinquanta o cento anni). E a volte questi soldi sono versati direttamente nei conti delle élite governative.

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Poi ci sono gli effetti collaterali che colpiscono le zone limitrofe ai terreni oggetto degli investimenti. È il caso di Boane, nella provincia di Maputo. In quella regione Bananalandia, un’azienda sudafricana che ha preso in concessione 1.500 ettari di terra, ha reso più difficile l’accesso al fiume Umbelúzi, secondo gli abitanti dei villaggi. “Prima era facile per la comunità raggiungere il fiume a piedi, ora le distanze sono più lunghe e per le donne è complicato arrivarci”, racconta Lino Pita Nassone, sindacalista dell’Unac (Unione nazionale dei contadini). L’impresa fa il possibile per limitare gli effetti negativi causati dalla sua presenza. “Noi facciamo del nostro meglio per andare incontro alle esigenze dei villaggi circostanti”, afferma Peter Gouws, amministratore delegato di Bananalandia, azienda che dà il suo contributo all’economia locale dando lavoro a più di 2.500 persone del posto e pagando circa 10 milioni di meticais (250mila euro) di salari al mese. “Ma è impossibile accontentare sempre tutti”, aggiunge il manager. La responsabilità, infatti, è del governo, a cui gli abitanti dei villaggi hanno segnalato il problema senza ricevere risposta.

Ma anche quando si assume manodopera locale ci sono dei problemi. “Quello delle differenze culturali è un dilemma che mi affligge sempre, ogni volta che incontro il capo villaggio”, racconta Michele Sammartini, imprenditore italiano che guida una virtuosa azienda agricola di duemila ettari nella provincia di Xai-Xai. “Non possiamo negare che con questi progetti irrompiamo nelle tradizioni delle comunità locali, sconvolgendo la vita delle persone”, dice Sammartini, accostando l’agricoltura industriale all’immagine di un’astronave che atterra nei villaggi, abituati ai ritmi lenti del modello di sussistenza. E aggiunge: “È qui che dobbiamo cercare di dare qualcosa in cambio, non solo dal punto di vista economico ma dando alle persone gli strumenti tecnici in modo che un giorno possano farcela da soli”. Un approccio costruttivo dettato da scelte personali e che sta dando i suoi frutti: l’azienda di Sammartini non è mai stata contestata dalle associazioni locali.


Grandi attori

Spesso l’anello debole della catena degli investimenti sulla terra è il governo dello stato concessionario. I governi locali dovrebbero mediare tra le aziende e la popolazione, limitare gli effetti negativi degli investimenti e imporre misure di controllo che tutelino gli interessi delle comunità rurali. Ma questo avviene raramente. Non è un caso se gran parte delle acquisizioni si concentra in paesi che registrano indici di corruzione molto preoccupanti. E questo rischia di compromettere il valore dei progetti di investimento. Progetti in cui le istituzioni internazionali credono molto. A cominciare dalla Banca mondiale, che nel 2008 ha prestato quattro miliardi di dollari per sviluppare l’agricoltura nei paesi in via di sviluppo, e che ha intenzione di aumentare entro il 2015 questa cifra fino a dieci miliardi di dollari all’anno.

Finanziamenti che non convincono Oxfam. Nell’ottobre del 2012, la rete di organizzazioni non governative ha elencato “ventuno progetti della Banca mondiale che hanno causato proteste formali delle comunità locali, che hanno denunciato la violazione dei loro diritti” e hanno chiesto il congelamento dei prestiti. Una richiesta che è stata raccolta solo in minima parte: la Banca mondiale ha aderito alle “linee guida volontarie sui regimi fondiari” (una sorta di galateo per chi opera nel business delle terre), mentre i finanziamenti continuano, anche sostenuti dalla convinzione che gli investimenti in terra e agricoltura siano la chiave per combattere la povertà.

“Nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di persone in più da sfamare, e per riuscire a soddisfare i loro bisogni sarà necessario aumentare del 70 per cento la produzione agricola globale”, sostiene la Banca mondiale. Uno slogan, quello del “feed the world”, ripreso da colossi del settore alimentare come Monsanto e Cargill. Ma se è vero che la Fao rileva una crescita della domanda globale di alimenti dovuta all’aumento demografico, è vero anche che, come spiega Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione, oggi “si produce una quantità di cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone, a fronte di una popolazione mondiale di 7 miliardi”. A mancare quindi non è il cibo ma una distribuzione efficiente e il reddito per accedere alle risorse.


Piovono dati

Ma quanti ettari di terra sono stati acquisiti, in tutto il mondo, da quando è cominciata la corsa alla terra? Descrivere numericamente il fenomeno significa affrontare una moltitudine di cifre contraddittorie. La Banca mondiale ha parlato di 56 milioni di ettari acquistati solo tra il 2008 al 2009, dopo la crisi dei prezzi degli alimenti. L’International food policy research institute e l’Oakland institute hanno fatto una stima di 15-20 milioni di ettari tra il 2006 e il 2009. Nel 2011 Land matrix, un database che raccoglie le acquisizioni di terra in tutto il mondo e a cui collaborano cinque centri di ricerca internazionali, ha stimato che dal 2000 in poi sono state acquisite terre per 227 milioni di ettari. Una cifra enorme calcolata sulla base di fonti non sempre attendibili, e che nel 2013 è stata ridimensionata a 33 milioni. Una stima effettuata a partire dai contratti firmati, e descrive un’area grande otto volte i Paesi Bassi. (Grafico. I cinque Paesi che hanno acquisito più terre in Africa)

“È difficile dire con ragionevole certezza quale sia il dato reale”, sostiene Andrea Fiorenza, ricercatore di International land coalition e autore degli studi sulle “pressioni commerciali sulla terra”. Fiorenza spiega che “alcuni progetti cominciano, poi incontrano problemi di varia natura e si interrompono, sono sospesi, oppure al contrario si espandono oltre le superfici legalmente concordate”. E la scarsa trasparenza dei governi dei paesi in via di sviluppo, che tendono a nascondere gli accordi presi con gli investitori, non permette di avere un quadro cristallino della situazione. Tuttavia, l’obiettivo di Land matrix non è fornire un dato assoluto ma, come spiega Fiorenza, “monitorare l’andamento di questo fenomeno, attingendo a più fonti e cercando di aggiornarsi costantemente”. (Grafico. I cinque Paesi che hanno concesso più terre in Africa)

Ma se i dettagli si perdono in un dibattito ricco di sfaccettature, la tendenza attuale è chiara: la corsa alla terra continua. Va avanti sotto una pioggia di numeri contraddittori, tra i solchi delle ruspe cinesi nella provincia di Xai-Xai e le decisioni prese negli uffici della Banca mondiale. Una corsa che prosegue a ritmi frenetici, neppure paragonabili a quelli della vita delle comunità ai margini del fiume Limpopo, o ai confini delle cave della provincia di Tete. Che di questa corsa sono il traguardo, o il punto di partenza. (http://www.internazionale.it/news/africa/2013/11/27/la-corsa-alla-terra-continua-2/#)

Jacopo Ottaviani per Internazionale


Jacopo Ottaviani è giornalista specializzato nella produzione d’inchieste di data journalism. Collabora con testate nazionali e internazionali, tra cui The Guardian, Die Zeit e Al Jazeera International. È su twitter: @jackottaviani


Lo sviluppo del progetto è stato possibile grazie al programma Innovation in development reporting, organizzato dal Centro di giornalismo europeo. Al progetto e alle ricerche sul campo hanno partecipato anche Andrea Fama, Cecilia Anesi e Isacco Chiaf.

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