I dati Eurobarometro confermano, i cittadini italiani hanno una “bassa pratica culturale”. L’inaspettato ritrovamento di 1.500 opere d’arte confiscate dai nazisti durante il Terzo Reich ha sollevato grande scalpore, non solo nel mondo della cultura: da Picasso a Renoir, da Matisse a Chagall, si tratta di opere che hanno un valore per l’umanità probabilmente molto più alto del miliardo di euro al quale sono state stimate. Ancor più che ai tempi di Wilde, oggi conosciamo il prezzo di ogni cosa ma il valore di nessuna.

Per estensione, l’amaro sarcasmo del poeta inglese vale benissimo per tutto il comparto della cultura (o, come dicono gli economisti, dei beni culturali). Con la differenza che di questo mondo basterebbe conoscere il costo, perché se ne apprezzasse il valore. Come sostiene l’ultimo report della Fondazione Symbola e Unioncamere – Io sono cultura – la cultura frutta al Paese il 5,4% della ricchezza prodotta, (circa 75,5 miliardi di euro) e dà lavoro a quasi 1.400.000 cittadini, il 5,7% del totale degli occupati italiani. Eppure, l’ultima indagine dell’Eurobarometro certifica una picchiata del settore.

Anche a causa della crisi economica, gli italiani confessano di avere una “bassa pratica culturale”: il 49% del totale, rispetto a una media europea del 34% (in tutto, sono state 26mila le persone intervistate nei 27 paesi Ue). In discesa anche il consumo di praticamente tutti i beni culturali classificati (vedi grafici a fianco, ndr), compresi addirittura quelli che non presentano costi aggiuntivi per la fruizione, come i programmi dedicati in TV.

Per non parlare dei libri. Più della metà degli italiani, come recentemente confermato anche dall’Associazione italiana editori, non ne legge neanche uno all’anno. Si tratta naturalmente dell’altra faccia dell’analfabetismo funzionale, che in Italia riguarda oggi più del 70% della popolazione adulta, ma c’è dell’altro. Sono numeri di un Paese che ha – dati Federculture alla mano – 3.609 musei, 5.000 siti culturali, 46.025 beni architettonici vincolati, 12.609 biblioteche, 34.000 luoghi di spettacolo e 47 siti UNESCO. Un tesoro unico al mondo che non si riesce a sfruttare economicamente, e di cui neanche i cittadini godono come potrebbero.

L’anno scorso, poco dopo gli Stati generali della green economy, venne l’ora degli Stati generali della cultura: insieme apparivano come una grande promessa al Paese. In questo caldo autunno la seconda edizione si è già conclusa per i primi, guadagnandosi purtroppo solo un modesto slancio nel dibattito politico e sociale italiano. Per gli Stati generali della cultura, invece, al momento neanche sappiamo se una seconda edizione si terrà o meno.

In quell’economia della conoscenza che rimane la via d’uscita più promettente da questa crisi economica che diviene sempre più anche una crisi d’identità, green economy e cultura si intrecciano a garantire una prospettiva di futuro sostenibile per l’Italia. Senza il sostegno del pilastro culturale, anche quello dell’economia verde è destinato a veder vacillare la sua lenta ascesa: rassegnarci al declino non può essere un’opzione.

di Luca Aterini

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