Questo pezzo è uscito sul n. 23 di alfabeta2, con il titolo "Contro l’economia della creatività. La cultura davvero non si mangia".

di Christian Caliandro e Fabrizio Federici


1. Le retoriche della creatività e la cultura in Italia

“Gli italiani sono il popolo più creativo del mondo”: quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase, da decine di politici e giornalisti del Belpaese? Ma le cose non stanno proprio così. Chi pensa e dice una cosa del genere, con ogni probabilità non sa nulla del mondo del 2012 e neanche degli ultimi venti-trent’anni. Con ogni probabilità, possiede un’idea piuttosto asfittica della produzione e della fruizione culturale. Un’idea totalmente autoreferenziale e autocelebrativa della cultura e della creatività, pochissimo proiettata verso lo spazio esterno – e persino verso quello interno. Il contesto italiano dell’ultimo trentennio, infatti, è riuscito a generare (tra gli altri incredibili risultati) quello che è un vero unicum nella storia culturale recente dell’Occidente: una forma acuta e perniciosa di dissociazione dalla realtà e dal mondo esterno, di vera e propria schizofrenia. Si fa raccontare e adotta un’altra verità rispetto a quella effettiva. Un’altra identità. È, questa, una strana forma di autoriflessività, che non contempla affatto il riconoscimento di sé: piuttosto, implica la perdita di se stessi. L’oblìo. Purtroppo, la maggior parte delle produzioni e delle narrazioni culturali attuali (romanzi, film, opere d’arte, fiction televisive, discorsi pubblici), anche se per fortuna non la totalità di esse, non fa che confermare questo stato di cose.

Questa retorica si aggancia ad altre retoriche, prodotte a livello internazionale: nel corso degli ultimi quindici-venti anni, infatti, la “creatività” è diventata non solo un termine onnicomprensivo, ma anche una sorta di mantra per la letteratura sia specialistica che generalista. Una buzzword, come dicono gli americani. Ciò è dovuto a quella garanzia “magica” che la creatività ha acquistato presso urbanisti, policy makers e studiosi, nonostante il suo aspetto tecnicistico e grazie ad elaborazioni intellettuali à la page. È facile comprendere il perché: la creatività è una forma leggera, depotenziata, sterilizzata – perciò più maneggiabile e gestibile – rispetto alla “creazione”, una nozione infinitamente più ingombrante e problematica, molto poco adattabile ad un universo cool.

Quest’aura di accessibilità e dimestichezza rappresenta (o meglio, rappresentava fino a poco tempo fa: nell’epoca pre-crisi) un appiglio irresistibile per chi deve prendere decisioni immediate, con implicazioni dirette per le comunità e i contesti: questa è la ragione principale della diffusione di questa idea quasi ‘messianica’ della cultura e della creatività (i due concetti tendono spesso a sovrapporsi in questo campo, con gli effetti ‘sterilizzanti’ sul territorio culturale che si possono facilmente immaginare) come agenti nei processi di trasformazione. Così, la cultura è stata interpretata come la soluzione ideale di tutte le contraddizioni economiche e sociali: “il perfetto peace-maker”, per così dire – mentre è vero piuttosto il contrario, dal momento che spesso essa di solito fa esplodere le contraddizioni e la complessità.

Il ruolo principale della cultura è quello di costruire le identità particolari e collettive, non di oscurarle. Di elaborare i traumi, non di contribuire a rimuoverli. Di criticare radicalmente la realtà e le sue storture, non di validarle e costruirci attorno un cordone sanitario. Di aiutare le persone a comprendere l’esistenza, e la propria evoluzione all’interno di questo tempo esistenziale. Di produrre continuamente il senso dell’umano. La cultura dunque, da agente della rimozione e della dissociazione, può – e deve – diventare agente della trasformazione: trasformazione radicale dei nostri paradigmi (economici, sociali, politici).

La consapevolezza di questa funzione profondamente trasformatrice della cultura si sta facendo strada – nonostante quasi tutte le apparenze dicano il contrario – anche nel nostro Paese, dove è in corso un dibattito avanzatissimo, e anche molto pratico, sui “beni comuni”, che si lega alle battaglie degli ultimi anni per la loro difesa e la loro tutela: tra i numerosi esempi, la lotta No Tav, il Referendum per l’Acqua bene comune e l’occupazione del Teatro Valle di Roma (che si avvia nel frattempo a diventare una Fondazione), o come il Cinema Palazzo di Roma, Macao a Milano, Vulcano a Napoli e Occupy Biennale a Venezia. Contemporaneamente, si è venuto articolando un ampio discorso nell’arena pubblica su questo macro-tema, essenziale proprio perché esso aggrega gli argomenti fondamentali che riguardano oggi le società occidentali, e che le riguarderanno nei prossimi decenni (l’ambiente, lo spazio pubblico, il sapere, la capacitazione).

Come scrive Ugo Mattei in Beni comuni. Un manifesto (2011): “[…] quando al centro della scena si pongono i beni comuni, è proprio la realtà naturalizzata e resa egemonica dal mondo capitalistico in cui viviamo ad essere posta in questione. L’attenzione e la piena comprensione dei beni comuni consentono di scorgere una diversa realtà, la possibilità di diversi rapporti sociali fondati sulla soddisfazione di esigenze dell’essere e non soltanto dell’avere. In una parola, porre i beni comuni al centro della scena significa dire che ‘un altro mondo è possibile’. Non solo, ma una teorica dei beni comuni, rifiutando la mercificazione e lo sfruttamento e rivendicando le condizioni ecologiche dell’esistere in comunità, si fonda su un’altra realtà, che pone in discussione radicalmente il pensiero dominante dicendo che un altro mondo è necessario se vogliamo salvare il nostro pianeta.”

La complicazione principale, nel caso italiano (tutto peculiare, come del resto quasi ogni cosa che riguardi il nostro Paese e le sue vicende), è data dal fatto che la declinazione distorta del principio “non ci sono fatti, solo interpretazioni” ha riguardato tutte le parti politiche (e sociali). Nessuna esclusa. Lo smantellamento del sistema di valori di riferimento che aveva guidato la Repubblica dalla sua nascita postbellica agli anni Settanta – certamente tra alti e bassi, con luci e ombre, punte di nobiltà e zone di bassezza – ha richiesto un’opera capillare e chirurgica di rimozione, attraverso la costruzione di un’intera ideologia e di un immaginario culturale. Questo immaginario non è stato, ovviamente, solo autogenerato, ma si è prodotto insieme e all’interno di un più ampio schema: quello del neoliberismo occidentale, intessuto di politica, economia, cultura popolare e di una ben determinata visione del mondo.

Questo è il motivo principale per cui abbiamo, oggi, la necessità di riaffermare e di ristabilire valori essenziali (i “beni comuni”, la dignità del lavoro, la solidarietà, la condivisione delle regole e dei diritti), aspetti una volta noti ed elementari, e gradualmente privati di senso e di contenuto: ridotti a scatole vuote. Occorre, perciò, ripartire – e immediatamente – da qui: dal recupero della dimensione dell’altro, del “noi”. Che poi vuol dire società, comunità, collettività, l’ecologia al di fuori della quale l’individuo non vive, e neanche – se è per questo – sopravvive. Questa dimensione è infatti l’unica che possa posizionarci chiaramente e positivamente nel mondo. È l’unica, cioè, in grado di avviare la ricostruzione e la riappropriazione della nostra identità (individuale e collettiva), e la sua proiezione in una dimensione finalmente di prosperità comune. La lezione – almeno, una delle lezioni – che va tratta dal trentennio appena trascorso è che il benessere acquisito dai pochi a sfavore dei molti non dura a lungo, e ha conseguenze nefaste sull’intero sistema sociale


2. La fabbrica dell’arte e i recinti economici

Di fronte alla scomparsa della fabbrica nell’immaginario collettivo e all’effettivo arretramento del comparto industriale la cultura italiana ha reagito in maniera diversificata. Si è innanzitutto risvegliato, quasi come una reazione al declino, un notevole interesse per la stagione più dinamica del capitalismo nostrano e gli anni in cui furono più stretti e proficui i rapporti tra intellettuali e grande capitale: riedizioni, articoli sui giornali, incontri testimoniano della grande attenzione per la letteratura industriale degli anni Sessanta (Volponi, Ottieri, Parise) e per figure cardine, a cominciare da quella di Adriano Olivetti. A riaccendere l’interesse ha contribuito la fioritura di una nuova letteratura sul lavoro, che a sua volta ha tratto ispirazione dai capisaldi di quella stagione; protagonisti ne sono, nella gran parte dei casi, non più gli operai, ma – conformemente alla drammatica evoluzione del mercato del lavoro – i precari, dagli operatori dei call-center ai supplenti.

Di segno ben diverso è il travaso di termini che designano luoghi di lavoro manuale in ambito culturale, artistico, ricreativo, spesso (ma non sempre) giustificato dal reimpiego di strutture produttive. Il fenomeno riguarda spazi espositivi e centri d’arte (dalla Fabbrica del Vapore alla bolognese Manifattura delle Arti, a Fabbrica Arte Rimini), festival (Fabbrica Europa), locali con venature artistiche, solitamente covi di radical-chic (le tante Officine, con o senza ulteriori specificazioni). Il risultato dell’operazione (che trova il suo antecedente nella Factory warholiana) è duplice: da un lato tali denominazioni servono a identificare musei ed eventi come luoghi e momenti di produzione di ‘qualcosa’, con una loro responsabilità sociale, legittimandoli agli occhi della pubblica opinione, che potrebbe incorrere nel grossolano errore di ritenerli enti inutili, teatri dell’autorappresentazione di una comunità chiusa; dall’altro la fabbrica perde, nell’immaginario comune, lo statuto di luogo di sudore e sangue, per divenire quasi un locus amoenus, pimpante e, incredibile a dirsi, creativo.

È tuttavia un altro, nel dibattito pubblico, il principale fenomeno che lega, nel segno di un’improbabile sostituzione, i destini dell’arte e della cultura, da una parte, e dell’industria, dall’altra. L’apparato produttivo del Paese è alla frutta. Negli ultimi decenni è stato depauperato – a causa di scelte dissennate della classe dirigente, politica ed economica – un patrimonio enorme di conoscenze e competenze, settori vitali e all’avanguardia (l’esempio classico è quello dell’informatica) sono stati fatti colare a picco. Il Paese è così giunto all’“ora fatale”, al duello con la famigerata crisi con le armi spuntate, senza uno straccio di idea e soprattutto privo di un piano di rilancio industriale basato sull’innovazione. Ed ecco che nella testa di molti si è accesa una lampadina: facciamo dell’arte e della cultura un settore fondamentale della nostra economia, anzi il pilastro della nostra struttura economica. L’arte prima industria della nazione, o meglio al posto dell’industria. E nemmeno intesa, si badi bene, come produzione artistica contemporanea (cinema, teatro, arti visive e performative, etc.), cosa che potrebbe anche avere un senso (benché difficilmente ci si tenga in piedi un Paese). Il riferimento è prima di tutto al patrimonio storico-artistico che così capillarmente punteggia la Penisola. Le grandi “fabbriche” degli Antichi e del Rinascimento, nel senso architettonico che il termine aveva in passato, al posto delle fabbriche dell’era industriale.

E allora giù con i manifesti sulla “cultura che fattura”. Giù con i discorsi da imbonitori che devono piazzare un prodotto, sull’Italia che vanta “il più grande patrimonio culturale del mondo” e che possiede il cinquanta, l’ottanta, il centoventi per cento dei beni storico-artistici del pianeta. Chiacchiere da bar che incredibilmente sono state fatte proprie da intellettuali e élites: «Ti rendi conto che il patrimonio artistico della sola Firenze vale quanto quello di tutta la Spagna?» (Armando Torno, cit. da Roberto Napoletano, “Il Sole24Ore”, 5 febbraio 2012). Discorsi che purtroppo fioccano soprattutto a sinistra: per ribattere al tremontiano “la cultura non si mangia”, si ripete il mantra secondo cui con la cultura ci si strafoga, senza la minima riflessione su cosa sia la “cultura”, senza chiedersi quanto, di quello che viene oggi spacciato per “culturale”, sia effettivamente tale (pensiamo ad un settore tra i più redditizi, le mostre: quante producono realmente cultura?). Insomma, un ossessivo discorso intorno alla cultura che è il meno culturale possibile; e non stupisce, in un Paese nel cui governo tecnico l’unico ministro non tecnico è proprio il fantasmatico Ministro della Cultura.

Interpretare ancora oggi la cultura e la produzione culturale in termini puramente economicistici significa, banalmente, volerla ancora costringere in un recinto che non le appartiene, all’interno di regole e parametri non suoi. Di un sistema, cioè, che non la riguarda e che le è addirittura ostile. Per questo, gran parte della retorica della creatività prodotta negli ultimi quindici anni si rivela drammaticamente assurda, perché proviene da una concezione totalmente distopica del funzionamento interno dei fenomeni culturali, e dell’innovazione creativa, prodotta all’interno di una mentalità sempre e comunque neo-liberista. Vuol dire applicare i princìpi strumentali (la “valorizzazione” non simbolica né metaforica, ma assolutamente letterale, come modello più o meno esplicito delle proposte) alla cultura, ricadendo – dal verso opposto – negli stessi errori dei decisori che proclamano ed applicano i tagli ai finanziamenti per il settore culturale pubblico. Da “la cultura rende, eccome!” a “se non rende (nell’immediato), non serve”, infatti, il passo è molto più breve di quanto non sembri: la maledizione dell’audience è sempre in agguato. Tra “con la cultura non si mangia” e “con la cultura si mangia” non corre poi tutta questa differenza: entrambi gli approcci discendono, di fatto, dalla medesima filosofia.

Ora, ovviamente, siamo tutti contenti se con la tutela e la promozione delle nostre bellezze si riescono anche a creare posti di lavoro e si produce indotto, se nel settore si evitano gli sprechi etc. etc. Ma il pensiero unico afferma ben altro, propinando una ricetta (peraltro illusoria) che, facendo della cultura unicamente una voce dell’economia, ne contraddice il carattere più profondo, che è quello di essere un’altra cosa rispetto al denaro e al mercato e al soddisfacimento dei bisogni materiali. Una ricetta che, inoltre, non fa bene al Paese: davvero vogliamo ridurci a parco giochi d’Europa e del mondo?

Inseguendo la chimera della valorizzazione come panacea di tutti i mali, l’Italia rinnega ancora una volta se stessa e la sua storia. Per quanto la Penisola sia sempre stata attraversata da orde di pellegrini, per quante anticaglie e patacche possiamo aver rifilato ai rampolli impegnati nel Grand Tour, nessuno si è mai sognato di far campare l’Italia sulle sue bellezze. Dietro Giotto, Michelangelo e Bernini ci sono sempre stati (ora più ora meno, e con differenze marcate da città a città) un tessuto produttivo vivo e commerci fiorenti. La cultura contribuisca al progresso più che allo sviluppo, educando, facendoci vivere meglio e in maniera più piena, alimentando la creazione di altra cultura. L’Italia la smetta di adagiarsi sugli allori del passato e valorizzi, più che chiese e castelli, il suo spirito industre.


3. La cultura, l’innovazione & la crisi

Anche l’innovazione, intesa come modifica sostanziale dell’ordine conosciuto, “un’alterazione di ciò che è stabilito” (Erwin Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, 1960), ha bisogno di un’ecologia, di un intero ecosistema culturale in cui nascere, mettere radici e crescere organicamente. Esattamente il tipo di habitat di cui l’Italia ha, in questo momento, un impellente e disperato bisogno, dal momento che qui esso è venuto meno ben prima della crisi socio-economica più grave dell’ultimo secolo: l’aggravarsi della crisi non fa che evidenziare brutalmente, ogni giorno, questa assenza. Il problema principale del nostro Paese, infatti, è la peculiare avversione al rischio che sembra aver sviluppato negli ultimi decenni: ogni innovazione vera è percepita come una minaccia, e viene regolarmente esclusa dallo sguardo collettivo. La società italiana soffre dell’incapacità cronica, a tutti i livelli, di immaginare il futuro; e persino – cosa forse ancor più grave – di percepire il presente.

Ovviamente, adesso questo avvitamento si rivela ancora più pericoloso che in passato. La crisi sta infatti ridefinendo i parametri e gli standard che regolano i singoli territori della vita collettiva in Italia, e quello culturale ovviamente non fa eccezione. Il modello fondamentale di questa riconfigurazione è quello della desertificazione: non c’è proprio altro modo di dirlo. I tagli ai finanziamenti pubblici annunciati – e realizzati – quotidianamente non hanno e non possono avere altra conseguenza, al netto delle lodevoli e interessanti sacche di resistenza (istituzioni, associazioni, movimenti, singoli autori). Tutto questo avviene mentre in altri Paesi europei (tra gli altri Francia, Germania, Svizzera, Nordic Region-Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda) e occidentali (USA, Canada), si tentano proprio nel bel mezzo della crisi – e spesso con successo – strategie alternative di sostegno all’arte ed alla cultura. Che contemplano, per esempio, modalità intelligenti e innovative di fusione tra risorse pubbliche e private, oppure l’attivazione di distretti e network, nazionali ed internazionali, interamente dedicati alle imprese creative.

E da noi? Da noi vige e impera la medesima cultura dell’emergenza che da parecchi decenni ormai affligge la nostra società. Di una visione (o di un’assenza di visione) ampia ed asfissiante, che si può sintetizzare così: “in questo momento, ci sono cose ben più importanti a cui pensare: ci dispiace, ma non possiamo pensare anche alla cultura”. Il pensiero sottinteso è, naturalmente: la cultura è un lusso, un bene voluttuario, un “vuoto a perdere” che non ci possiamo più permettere. Naturalmente, non ci potrebbe essere quasi nulla di più sbagliato e controintuitivo, proprio in un momento del genere: ridurre, comprimere, soffocare, eliminare la produzione e la fruizione culturale vuol dire, molto semplicemente, segare il ramo su cui si è seduti. Cancellare le proprie chance presenti e future; condannarsi all’impermanenza.

È un errore grossolano e molto pericoloso, come quello – purtroppo molto diffuso – di pensare che la crisi prima o poi passerà. Che sia solo, in definitiva, una sospensione dell’ordine naturale delle cose, del loro stato normale; e che, una volta trascorsa, quello stesso ordine si ristabilirà. In realtà, nulla tornerà come prima: lo stesso “prima” non esiste e non esisterà più. Non c’è nessun “tunnel” (dal momento che questa è, a quanto pare, la metafora preferita della nostra classe dirigente) che va attraversato: a meno di non immaginarne uno in cui il mondo che troviamo all’uscita è profondamente cambiato rispetto a quello da cui siamo entrati – e a cambiarlo siamo stati proprio noi.

La crisi (come indica l’etimologia stessa del termine κρ?σις: distinzione, valutazione, discernimento) è la transizione consapevole da uno stato della realtà ad un altro, inevitabilmente diverso. La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione, che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione del mondo. E non c’è nulla come la cultura che riesca ad assolvere questa funzione, nella maniera più completa ed efficace: la cultura ci addestra a trovare soluzioni inedite a problemi che ci paiono insormontabili, mutando i punti di vista sui fenomeni, stabilendo connessioni tra eventi e idee, articolando livelli molteplici di interpretazione. Compito della cultura dunque, in una fase di transizione epocale come quella che stiamo attraversando, non può che essere – dopo aver ratificato ed analizzato la fine dell’epoca precedente – immaginare, articolare e costruire l’epoca nuova.

La cultura è il telaio, la struttura fondamentale di progettazione del presente e del futuro. (http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-funzione-trasformatrice-della-cultura/)

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