Amnesty International ha recentemente visitato il campo di Za’atri, ormai il più grande della Giordania. Attualmente ospita 130.000 rifugiati siriani. La vita quotidiana, resa già dolorosa dall’esilio, dalla perdita della casa e dei familiari, è piena di fastidi, minacce, veri e propri atti di stalking.
Il compromesso raggiunto il 14 settembre, sulla base del quale le armi chimiche siriane verrebbero poste sotto controllo internazionale per poi essere distrutte, rappresenta certamente un segnale importante: se non attesta la completa buona volontà del Governo siriano (anche se, in precedenza, aveva deciso di aderire alla Convenzione sulle armi chimiche) mostra che, di fronte a pressioni concertate, che coinvolgano anche i partner di Damasco, qualcosa è possibile fare. Ma è ancora troppo poco.
Non va dimenticato, infatti, che, nel corso degli ultimi due anni e mezzo, decine di migliaia di civili siriani sono stati uccisi con armi convenzionali. Amnesty International ha più volte denunciato l’uso di artiglieria, armi aeree e bombe a grappolo in attacchi delle forze armate di Damasco contro aree residenziali e villaggi. Tutti rimasti al di qua della cosiddetta “linea rossa” più volte citata, e più volte spostata in avanti, da parte dell’amministrazione statunitense.
L’attivismo mostrato dalla comunità internazionale all’indomani degli attacchi con le armi chimiche del 21 agosto, tra la minaccia di un intervento armato e i tentativi per evitarlo, rischia di essere tardivo (anche perché, con ogni probabilità, quelle armi chimiche erano state già usate in passato). Ben altro si sarebbe dovuto fare, come Amnesty International aveva chiesto sin dalla primavera del 2011: un embargo sulle armi destinate alle forze armate del presidente Bashar al-Assad ed il deferimento della situazione siriana alla Corte penale internazionale.
La seconda richiesta rimane ancora validissima. Sarebbe vergognoso anche solo ipotizzare che il futuro della Siria possa passare attraverso negoziati che coinvolgessero chi si è macchiato di crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Accanto a questa richiesta, Amnesty International continua a chiedere al Consiglio di sicurezza di esercitare pressioni sul Governo siriano affinché la Commissione d’inchiesta sulla Siria istituita dall’Onu possa entrare nel Paese ed indagare su tutte le violazioni dei diritti umani commesse da chiunque stia prendendo parte al conflitto.
Il conflitto armato in Siria, lasciato colpevolmente incancrenire, ha costretto almeno un decimo della popolazione a lasciare la propria casa. La situazione dei rifugiati oltre confine (due milioni tra Turchia, Giordania e Libano) è drammatica.
Amnesty International ha recentemente visitato il campo di Za’atri, ormai il più grande della Giordania. Attualmente ospita 130.000 rifugiati siriani. La vita quotidiana, resa già dolorosa dall’esilio, dalla perdita della casa e dei familiari, è piena di fastidi, minacce, veri e propri atti di stalking. Vivere o, meglio, sopravvivere all’estero, da rifugiati, in povertà, rende le ragazze ancora più alla mercé dello sfruttamento e della violenza.
La stampa giordana specula colpevolmente sulla precarietà della vita da rifugiata, parlando di “spose siriane a basso costo”, se non direttamente di “prostitute siriane” disponibili nel campo di Za’atri, con articoli sul “mercato dei matrimoni” o sulla “naturale propensione” delle Siriane ai matrimoni precoci.
L’attenzione verso le ragazze siriane e la mancanza di sicurezza e di privacy a Za’atri hanno reso gli uomini del campo, soprattutto i mariti, ansiosi, iper-protettivi e persino violenti. La libertà di movimento delle ragazze è fortemente limitata. Se possibile, ancora peggiore è la situazione degli oltre quattro milioni e mezzo di profughi interni, impossibilitati ad attraversare frontiere sempre più chiuse e braccati dalla guerra, intrappolati in zone controllate dal Governo o dall’opposizione armata o lungo linee del fronte sempre più volatili.
Intervento militare o meno, il tempo per una soluzione indolore sembra ormai scaduto. Per la Siria non è previsto un lieto fine. Saremmo lieti di stupirci, se dopo 900 giorni e 100.000 vittime, i leader della comunità internazionale elaborassero un piano condiviso ed efficace per porre fine al massacro, consegnare alla giustizia i responsabili di entrambe le parti e ricostruire le fondamenta del Paese e il suo tessuto sociale lacerato, frammentato ed incollerito, a partire dal rispetto dei diritti umani.
Firma l’appello su
www.amnesty.it per chiedere alle autorità siriane di porre fine alle sparizioni forzate!
Dall’inizio delle proteste scoppiate in Siria nel febbraio del 2011, migliaia di presunti oppositori del Governo sono stati detenuti arbitrariamente. Alcuni sono scomparsi. Le loro famiglie vivono nell’angoscia e nella disperazione. Non sanno che sorte sia toc- cata loro ed ignorano il luogo in cui si trovino. Altri, sottoposti a sparizione forzata, sono stati poi rilasciati dopo aver trascorso mesi in detenzione segreta e hanno raccontato ad Amnesty International delle torture e degli altri maltrattamenti subiti. Molti sembrano essere stati arrestati semplicemente per aver espresso il loro sostegno alle proteste o per essersi opposti al regime oralmente o per iscritto. Tra coloro che sono stati arrestati e torturati durante la detenzione vi sono anche i difensori dei diritti umani. Le sparizioni forzate sono state una delle principali preoccupazioni durante il Governo della famiglia al-Assad. Amnesty International ha documentato casi di sparizione forzata in Siria dalla fine degli anni ‘70, ma il numero di persone scomparse è di nuovo aumentato in modo considerevole negli ultimi due anni. (
http://www.socialnews.it/articoli/9460)
Antonio Marchesi. Presidente di Amnesty International Italia