Dal Consiglio europeo di fine ottobre sono arrivate affermazioni piuttosto vaghe su immigrazione e asilo. Per trasformarle in misure efficaci, è necessario separare i due problemi ed equilibrare gli sforzi degli Stati membri nell’accoglienza dei profughi. Il rischio di obiettivi di pura facciata.

Sergio Briguglio


DUE QUESTIONI DIVERSE

Le conclusioni del Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre contengono alcune affermazioni piuttosto vaghe in materia di asilo e immigrazione. Il premier Letta ha dichiarato che si tratta di affermazioni “sufficienti rispetto alle aspettative” dell’Italia. Per capire se lo siano rispetto al problema degli sbarchi di profughi e migranti sulle coste dell’Unione europea che si affacciano sul Mediterraneo e dei connessi costi in termini di vite umane occorrerà attendere che quelle affermazioni di principio si traducano in misure precise.

Quali siano le misure auspicabili dipende molto, ovviamente, dall’obiettivo che si intende raggiungere. Possiamo individuare tre obiettivi seri e uno di pura facciata. Il primo di quelli seri è rappresentato dal separare il problema dell’asilo da quello dell’immigrazione economica, per evitare che il sistema costruito dagli Stati membri per proteggere chi chieda asilo crolli sotto la pressione (impropria, ma comprensibilissima) di persone in cerca di accettabili livelli di benessere, ma non bisognose, in senso stretto, di protezione. Per raggiungerlo, si tratta di aprire con coraggio canali di immigrazione legale e, in particolare, istituire la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro condizionato al possesso di mezzi di sostentamento sufficienti. Si tratta cioè di superare l’idea che il lavoratore straniero possa arrivare nel territorio dell’Unione europea avendo già in mano un contratto di lavoro. Una pretesa di questo genere (assai rassicurante nei confronti dell’opinione pubblica più timorosa) può applicarsi ai lavori altamente qualificati; non certo a quelli a qualificazione medio-bassa, per i quali la domanda di manodopera straniera è più forte. Per rispondere ai possibili timori dei cittadini europei, basta osservare come non vi sia niente di realmente rivoluzionario in questa modalità di ingresso, trattandosi, per un verso, della modalità praticata di fatto dai lavoratori immigrati in elusione delle norme attualmente vigenti; per l’altro verso, di una forma un po’ più rigida e, quindi, un po’ più prudente, del meccanismo che regola l’immigrazione intra-comunitaria (ad esempio, quella rumena): se oggi rimandassimo in patria il milione di rumeni che vivono e lavorano in Italia, molte imprese italiane li seguirebbero in Romania.


L’ACCOGLIENZA DEI PROFUGHI

Il secondo obiettivo serio consiste nell’equilibrare gli sforzi degli Stati membri nell’accoglienza dei profughi – di coloro, cioè, che fuggono da situazioni di violenza. Oggi, la materia è disciplinata dal regolamento “Dublino”, giunto alla sua terza versione. È un regolamento nato per assicurare al richiedente asilo che la sua domanda non sia palleggiata all’infinito da uno Stato membro all’altro e per impedire che lo stesso richiedente possa scegliere liberamente lo Stato membro cui chiedere asilo (cosa che, al tempo della prima versione, avrebbe ingiustamente premiato gli Stati membri più spilorci nei confronti dei profughi e penalizzato quelli più generosi). Il regolamento stabilisce allora i criteri per la determinazione dello Stato competente per l’esame della domanda di asilo, che non necessariamente coincide con quello nel cui territorio la domanda è stata presentata: in genere (con alcune eccezioni ininfluenti sul piano numerico), risulta competente lo Stato membro attraverso il quale il richiedente ha fatto ingresso nel territorio dell’Unione Europea.

Il sistema ha due difetti: rischia di sovraccaricare gli Stati membri geograficamente più esposti al flusso di profughi (al momento, gli Stati meridionali dell’Unione) e ostacola una allocazione efficiente dello stock di profughi, quale quella che si otterrebbe selezionando lo Stato membro competente in base alla ricettività del suo mercato del lavoro o delle reti di sostegno amicale e familiare di cui un dato profugo potrebbe soggettivamente godere.
Una riforma che intenda correggere questi difetti dovrebbe essere accompagnata da una periodica determinazione della percentuale di profughi che ciascuno Stato membro è tenuto ad accogliere in base alla propria situazione economica (non si può chiedere oggi, per esempio, alla Grecia e alla Germania di essere ugualmente generose) e da meccanismi di compensazione (burden sharing) per quegli Stati membri che si trovino ad accogliere una percentuale di profughi superiore a quella loro spettante.

Il terzo obiettivo è rispondere con la capacità enorme dell’intera Unione europea, e non con quella limitatissima di Lampedusa o Malta, ad afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, generalmente associati a una situazione di guerra o di violenza generalizzata messa in atto dai colpi di coda di un regime dittatoriale in crisi. Rispetto a questo obiettivo, la normativa europea è già adeguata, prevedendo (direttiva 2001/55/Ce) che il Consiglio dell’Unione Europea possa concedere protezione temporanea a determinati gruppi di persone, con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato. L’istituzione di un regime di questo tipo potrebbe essere accompagnata (anche in base alle disposizioni della direttiva stessa) dalla creazione di corridoi umanitari, ossia da misure di evacuazione dei destinatari della protezione, senza che essi debbano affidarsi a trafficanti e scafisti per raggiungere il territorio dell’Unione europea.

È bene notare come il termine concedere non sia usato qui in modo a-tecnico. L’istituzione del regime di protezione temporanea non si pone infatti come una modalità emergenziale per il riconoscimento del diritto alla protezione, che resta regolato dalle norme a regime, ma piuttosto come una misura complementare a quanto già previsto in relazione al riconoscimento del diritto. È una questione di lana caprina? Niente affatto. Il diritto a ottenere protezione quando si fugga da un conflitto o da una situazione di violenza generalizzata è un elemento fondamentale della normativa dell’Unione Europea. Si tratta di un diritto di cui, in linea teorica, potrebbero essere titolari molti milioni di persone. L’Unione Europea può permettersi il “lusso” di riconoscerlo come diritto soggettivamente esigibile (senza che gli Stati membri possano opporre alle corrispondenti richieste dinieghi fondati su considerazioni di sostenibilità economica) perché prevede che la richiesta di protezione possa essere presentata solo sul territorio di uno Stato membro. La limitazione fa sì che siano le barriere fisiche e politiche (deserto, mare, paesi terzi da attraversare ostili ai profughi) che separano l’Europa dai paesi in conflitto a contenere il numero delle richieste di asilo entro limiti di fatto sostenibili.

Quando si debba fronteggiare una situazione (quella odierna della Siria, per esempio) che richiede una maggiore apertura, la direttiva prevede che si possa concedere una speciale protezione, ma discrezionalmente, nei limiti dettati – appunto – da criteri di sostenibilità. Non si altera, cioè, la modalità di accesso alla procedura di riconoscimento del diritto, consentendo – come alcuni oggi propongono – a quanti ne posseggano i requisiti soggettivi di presentare la richiesta dal proprio paese: se così si facesse, il numero di quanti (giustamente) chiedono sia riconosciuto loro il diritto alla protezione potrebbe andare molto al di là dei livelli ragionevolmente gestibili; il giorno dopo, il diritto verrebbe semplicemente cancellato dalla normativa europea. Allo stesso tempo, l’istituzione del regime di protezione temporanea non deve precludere l’accesso al riconoscimento del diritto per chi giunga, comunque, sul territorio, al di fuori di qualunque corridoio umanitario. Non si tratta, cioè, di far degradare in tutti i casi il diritto alla protezione al rango di interesse legittimo alla protezione, ma piuttosto quello di sommare al riconoscimento di un diritto difficilmente esigibile la risposta sostenibile a un interesse legittimo potenzialmente assai diffuso.


L’OBIETTIVO DI FACCIATA

Al posto dei tre obiettivi seri di cui si è detto finora, è possibile (e, temo, probabile) che la politica europea ne ponga uno solo, di grande effetto, ma di pura facciata: evitare la morte in mare dei “disperati” (per usare un’espressione cara alla retorica dei governanti europei) che cercano di approdare sulle nostre coste. L’obiettivo può essere raggiunto abbastanza facilmente rafforzando le operazioni di pattugliamento in mare e stipulando accordi con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo in modo tale da impedire drasticamente che i profughi si imbarchino per raggiungere il territorio dell’Unione europea. La cosa non costa molto ed è facilmente vendibile all’opinione pubblica come misura di carattere umanitario. Deve essere chiaro, però, che non tutela affatto chi sia disposto a morire in mare pur di fuggire dal proprio paese: è come impedire a chi ha un incendio in casa di lanciarsi dal secondo piano. (http://www.lavoce.info/accoglienza-dei-profughi-asilo-clandestini/)

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