Per i bambini siriani, in diverse aree del Paese, il primo nemico è la fame. Prima ancora delle bombe, questi piccoli, appena affacciati alla vita, lottano per sopravvivere, mentre la malnutrizione ne mina il fisico e ne prosciuga impietosamente l’animo, fino ad ucciderli.
È una lotta contro il tempo. Non solo per salvar loro la vita, ma per preservarne l’infanzia. L’equilibrio psicologico, lo studio, i giochi.
Come il sonno tranquillo e la serenità: sarà più complicato farglieli ritrovare. L’hanno definita, non a caso, una generazione annullata. Sono i bambini siriani: quelli piccoli, piccolissimi, ancora in fasce.
Nati sotto le bombe.
E quelli in età scolare. Che capiscono, anche troppo. Sono i loro traumi nascosti e le paure manifeste che lasciano sconvolta la comunità internazionale. Accusata da molti di titubanza e immobilismo, di risposte flebili e incerte. A cominciare dall’ONU, spesso criticato per le sue nonazioni, insieme ai grandi della Terra.
Di contro, ai tatticismi politici e agli interessi economici che ruotano intorno al pianeta Siria e ai suoi alleati (Russia, Cina, Iran) c’è la disperazione dei civili che fa da doloroso contraltare.
Reale e quotidiana. Come l’impotenza degli operatori umanitari, i pochi che riescono ad insistere sul territorio siriano. A singhiozzo e a macchia di leopardo, in una gimcana di autorizzazioni, tra il regime e le aree sotto il controllo dei ribelli. Il loro grido di aiuto, le cifre che forniscono, le immagini e le storie impressionanti conquistano i media, ma non hanno ancora trovato una soluzione concreta da parte delle grandi potenze.
E i piccoli muoiono per motivi evitabili. Ogni giorno.
Per i bambini siriani, in diverse aree del Paese, il primo nemico è la fame. Prima ancora delle bombe, questi piccoli, appena affacciati alla vita, lottano per sopravvivere, mentre la malnutrizione ne mina il fisico e ne prosciuga impietosamente l’animo, fino ad ucciderli.
Scioccanti le immagini diffuse da Save the Children a Palazzo di Vetro, a margine della 68^ Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Per questi figli di Damasco, la guerra dura da tre anni: il Presidente Bashar Al Assad sta riducendo alla fame la sua gente e questo è il primo fatto indiscutibile. L’utilizzo di armi chimiche sta per essere definitivamente appurato. L’eliminazione chirurgica e inumana di bambini gasati mentre erano in classe va ad aggiungersi ad un sistema di devastante crudezza voluto dal regime, che sta azzerando una generazione intera. Non sono da meno i ribelli. Inebriati dai venti di libertà della Primavera Araba, nel tempo sembrano aver deviato le loro mire democratiche verso il terrorismo. E non è affatto da escludersi che, ad utilizzare il sarin, siano stati anche loro. Parole, al momento. I fatti sono, invece, che i civili stanno morendo per la cieca stoltezza dei contendenti.
In mezzo, come sempre accade in guerra, tra i lealisti e i ribelli restano schiacciati gli innocenti: bambini, donne, anziani. I loro diritti si infrangono sotto i colpi delle artiglierie. E le parole della diplomazia restano al vento.
I dati sulla fame in Siria sono inquietanti: nella sola area di Damasco, 1 bambino su 20 è malnutrito. Sono 4 milioni i minori a rischio malnutrizione nel Paese. E non possono più aspettare. È un vortice di disperazione che inghiotte, giorno dopo giorno, una generazione di piccoli sacrificati per una causa che non possono capire.
Il World Food Program copre i bisogni di 3 milioni di persone in Siria e di 1,2 milioni di rifugiati nei Paesi confinanti. Ora l’obiettivo è raggiungere anche i 4 milioni di sfollati all’interno del Paese. Per questo si chiede il cessate il fuoco, almeno temporaneo: per raggiungere chi sta morendo di stenti, prima che di colpi di mortaio.
Molti villaggi sono assediati da mesi, altri isolati e irraggiungibili, in aggiunta ai prezzi dei beni di consumo aumentati anche del 100%.
In molte aree, la popolazione non può procurarsi il cibo e agli operatori umanitari non è consentito l’ingresso per portare gli aiuti, i viveri, le medicine. Uno stallo che uccide soprattutto i bambini e i più deboli.
L’ONU denuncia come il prolungarsi del conflitto stia impoverendo progressivamente la popolazione civile: sarebbero ormai 7 milioni i Siriani che vivono sotto la soglia di povertà a causa della guerra.
Poi ci sono i bambini appena più grandi, ai quali la normalità è stata strappata. Quelli cresciuti tra i sibili delle granate. Per loro, il 15 settembre è suonata la campanella. Nelle scuole di Damasco, in quelle martoriate di Homs, nei tanti villaggi ridotti a cumuli di macerie. In pochi si sono seduti sui banchi. Perché la paura fa il resto e i numeri lasciano senza parole.
Sono quasi 2 milioni i bambini di età compresa tra i 6 ed i 15 anni costretti ad abbandonare la scuola: metà sono sfollati interni alla Siria, l’altra metà ha trovatorifugio nei Paesi confinanti. Nel grande campo profughi di Za’atari, in Giordania, nel Kurdistan iracheno, in Libano.
L’UNHCR, l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, sta facendo miracoli, ma non può continuare senza l’aiuto dei privati. I fondi non bastano mai. E la Siria, ahinoi, non è l’unica emergenza umanitaria di questo pianeta sempre più martoriato dall’odio dei conflitti.
Quasi 4.000 scuole sono andate distrutte in Siria: irreparabilmente danneggiate dalla guerra, utilizzate per ospitare militari o, nel migliore dei casi, per dare asilo alle famiglie. Di fatto, in quelle scuole non si insegna più: non ci sono i bimbi, i banchi, la ricreazione. La possibilità di studiare si è infranta sull’altare del conflitto.
Questo allarme scuola è stato recepito dal Ministero dell’Istruzione siriano che, grazie all’Unicef, ha dato il via alla campagna ‘Back to learning’: l’obiettivo è riportare a scuola un milione di alunni. Da tempo gli operatori dell’Unicef stanno distribuendo kit scolastici, zaini, penne, quaderni, astucci, anche a domicilio, in un programma di apprendimento che coinvolge non solo gli insegnanti, ma anche i genitori.
La guerra dei piccoli è come un incubo parallelo ad alto rischio di danni permanenti. E, a volte, un quaderno e una penna, i compiti fatti a casa, per paura di morire col prossimo raid aereo in classe, fanno la differenza: la scolarizzazione a domicilio è un altro, estremo, tentativo di regalare routine e normalità a questi bambini a cui è rimasta solo la paura.
Nei campi profughi, il lavoro degli psicologici e degli operatori umanitari è certosino.
Snervante, indefesso. Lo si vede dagli occhi di questi bambini. Smarriti, da un lato, ma positivi, dall’altro. Perché nei campi profughi si spera di tornare a casa. Quella attesa che, invece, in Siria i bambini non hanno. Per assurdo, nei campi profughi, grazie agli aiuti internazionali, i bambini tornano a sognare un domani, anche minimo, eppure concreto.
Disarmanti le risposte alla domanda più frequente: “Qual è il tuo sogno?” “Tornare a casa”, “Rivedere il mio migliore amico”, “Cercare il nonno” o, semplicemente,: “Ritornare a scuola”, “Giocare a casa mia”.
Il sostegno psicologico è fatto più di gesti e di colori che di parole: sono i disegni a svelare i segreti malcelati e difficili da confessare dei più piccoli. La morte dei genitori o degli amici, le bombe, le macerie, le esecuzioni. Questo hanno visto gli occhi di molti bambini scampati.
E così, su questi fogli, restano impressi dolori indelebili, sui quali il personale specializzato può lavorare. E, nel migliore dei casi, lenire, calmierare, curare.
Questo accade ai bambini siriani, mentre i grandi del mondo posizionano i cacciatorpedinieri nel Mediterraneo, in attesa di decisioni finali; mentre a Palazzo di Vetro discutono sulla Risoluzione per la Siria voluta da Obama e chiesta con forza dal Segretario Generale dell’ONU Ban ki Moon; mentre gli ispettori dell’ONU lavorano sulle prove dell’utilizzo di gas micidiali; mentre leggete questo articolo e potete scegliere di aiutare quei bambini, che hanno l’età dei nostri figli.
I piccoli rifugiati nei campi disegnano. Ma per quelli fuggiti, meno fortunati, come accade in Libano, c’è altro. C’è il lavoro minorile, una schiavitù strisciante e silenziosa. E la galera. Perché molti piccoli siriani vengono arruolati come venditori ambulanti da una specie di mafia locale. Sfruttati, non tutelati, accalappiati per fame, paura, solitudine.
Agiscono sulla costa libanese. Ci sono anche gli internazionali, che vivono lì e sono tradizionalmente più sensibili. Le famiglie siriane hanno fame, la gente acquista più volentieri la merce irregolare da piccoli indifesi. Questi piccoli abusivi scappati dalle bombe si ritrovano, spesso, assoldati a vendere accendini, oggettistica cinese, fiori. Ne ricavano briciole con cui possono acquistare qualcosa da mangiare. Spesso dormono all’aperto con i fratelli maggiori perché molti hanno perso madre e padre e si ritrovano coinvolti in altre miserie, per di più in un Paese straniero.
Un bambino ha raccontato di come la polizia libanese li fermi, ne requisisca la merce e li porti in commissariato. Poi arriva qualcuno non bene identificato, paga la multa e i baby venditori tornano fuori. A vendere quel nulla sul lungomare. E a guadagnarsi un futuro che si calcola in ore di sopravvivenza. Senza sogni, senza prospettive.
Poi ci sono quei barconi che noi Italiani conosciamo bene. Di recente, i bambini siriani e molti adulti stanno conoscendo anche le nostre coste. Approdi disperati in Italia, dopo viaggi di mesi a piedi, nei Paesi confinanti, fatti di dolore e privazione per scappare dalla guerra. E finire da noi: vivi, con niente in mano e, spesso, avendo perso la famiglia per gli stenti, proprio durante la fuga.
Si chiamava Muhammad Abyad, aveva solo 28 anni, faceva il dottore con Medici Senza Frontiere (MSF). Era Siriano, come chi l’ha ammazzato. Il suo corpo è stato ritrovato pochi giorni fa. Perché in Siria, per curare grandi e piccoli, ci sono anche tanti eroi senza nome, come lui: Siriano ucciso dai Siriani. Le équipe di MSF, composte da personale internazionale e siriano, operano in 6 ospedali e 4 centri sanitari nel Nord della Siria. Non hanno smesso di aiutare a costo della loro vita e della loro incolumità. Nel periodo compreso tra giugno 2012 e luglio 2013, le équipe di MSF in Siria hanno effettuato oltre 66.000 visite mediche, 3.400 interventi chirurgici e assistito a 1.400 nascite.
Questi neonati sono vivi soprattutto grazie a loro.
I bambini siriani non sono un problema di Damasco. Una faccenda interna. Un affare che non ci riguarda.
Sono una responsabilità della Comunità internazionale intera. Per questo la questione siriana coinvolge non solo i Governi, ma le coscienze di tutti noi.
Nonostante la crisi economica attanagli il nostro Paese, la generosità degli Italiani non si ferma. Per questo, anche un piccolo gesto minimo di solidarietà, sommato a tanti altri, può fare la differenza. I social network e le campagne per i bambini siriani invitano ad aprire il cuore e il portafoglio. Facendolo, si può seguire quello che accade giorno dopo giorno. E, magari, ci fa sentire vicini a quei piccoli cuori impazziti dalla paura e impoveriti dalla fame.
Su Twitter, l’hastag #childrenofsyria tiene aggiornati gli utenti su quello che l’Unicef sta facendo anche nel nostro Paese: ogni giorno il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, aggiorna sugli eventi e le iniziative che riguardano i bambini.
Ma digitando #childrenofsyria potrete seguire anche i reportage delle tv straniere e gli appelli alla generosità. Dati e cifre che ci ricordano, impietosamente, come una settimana di caffè mancati possano salvare un bambino siriano dalla fame.
Perché la guerra, da sempre, non è cosa da bambini. E quei figli disperati, non poi così lontani, hanno bisogno di noi.
Adesso. (
http://www.socialnews.it/articoli/9547)
Christiana Ruggeri
Giornalista, Redazione Esteri Tg2