Sono circa 200.000 i rifugiati del campo di Dollo Ado, nel sud-est dell’Etiopia, il più grande complesso per rifugiati al mondo dopo quello di Dadaab in Kenya. Sono somali, in fuga dalla situazione di violenza e povertà del Paese. Attualmente i campi di Dollo Ado sono cinque, fra questi quello di Bokolmanyo è uno dei due più vecchi e ospita oltre 40.000 persone.
Il CCM – Comitato Collaborazione Medica, organizzazione di cooperazione internazionale sanitaria nata nel 1968 a Torino da un gruppo di medici piemontesi, è attiva in Etiopia dal 1982. Per i rifugiati somali nel sud del Paese, vicino a Filtu, si impegna con attività di approvvigionamento di beni di base e, soprattutto, offrendo assistenza sanitaria. Capo progetto a Filtu per il CCM è Alessandro Guarino che ci scrive dal campo di Bokolmanyo.
CARTOLINE DA BOKOLMANYO – CAMPO RIFUGIATI ETIOPIA, REGIONE SOMALA, di Alessandro Guarino, capo progetto del CCM – Comitato Collaborazione Medica.
Arriviamo al campo rifugiati di Bokolmanyo venendo da Filtu. Dopo circa tre ore di salti su una strada sterrata che in Italia passerebbe per una carrettiera e che qui è una specie di autostrada, ci si inerpica su di un poggio, si fa una curva più stretta delle altre e ci si trova davanti una distesa di tetti, luccicanti sotto il sole della Regione Somala. Troppo forte nonostante la stagione delle piogge dovrebbe esser già cominciata.
Ufficialmente sono oltre quarantamila le persone che vivono in questo campo. E ce ne sono centosessantamila negli altri quattro campi da qui al confine con la Somalia (meno di 80 kilometri). La capitale della zona, Filtu, dove siamo basati, ne conta a malapena diecimila.
Da lontano sembra che il campo sia una città, con le abitazioni dal tetto di lamiera ordinate in fila. Basta però avvicinarsi un po’ e il velo si squarcia. Sotto le lamiere luccicanti spesso ci sono delle case fatiscenti. E la gran parte della gente, arrivata qui durante la carestia che ha colpito la vicinissima Somalia nell’estate del 2011, vive in capanne tradizionali, coperte da teli di plastica, molti dei quali rotti e rovinati. L’illusione si è rotta: è un campo rifugiati. E come in tutti i campi che ho visto fino ad ora è squallido e la cosa che ti colpisce di più è lo sguardo delle persone che sembra senza speranza.
Oggi siamo qui, io, dottor Stefania* (come la chiamano i colleghi etiopi) e Desalegn, ostetrico, per valutare le necessità dei centri di salute a cui fanno riferimento gli abitanti di Bokolmanyo e all’altro campo vicino, Melkaldida.
Nell’ambito del progetto che il CCM sta implementando nell’area, abbiamo tra gli obiettivi anche quello di migliorare le capacità di questi due centri per migliorare le cure per i rifugiati ed in particolare fornirli di equipaggiamenti medici. L’obiettivo è che i centri siano in grado di fornire al meglio tutte le cure primarie e, se ci fosse bisogno, di riconoscere e riferire i casi più complicati all’ospedale di Filtu. E a Filtu troveranno ancora il CCM a garantire i servizi di chirurgia ed ostetricia di emergenza.
Vistiamo i centri, raccogliamo informazioni, parliamo con il direttore e lo staff. Ci avevano detto che le condizioni erano migliori di quelle dei centri analoghi che sono più vicini a Filtu e forse è vero. Ma c’è sempre troppa distanza tra l’idea che ci si fa di un centro funzionante e quello che si vede in realtà. C’è bisogno di supporto, di equipaggiamenti, di medicinali, di formazione.
La giornata finisce tardi, il sole sta quasi per tramontare e non possiamo rientrare a Filtu. All’andata il nostro autista (anche se andrebbe chiamato pilota per le condizioni in cui ci guida su queste strade) ci dice che la zona tra Filtu è Bokolmanyo è ancora abitata da leoni e soprattutto la sera non è consigliabile passarci.
E allora il responsabile dell’UNHCR – l’Altro Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati - che ci ha accompagnato durante la giornata, ci offre di dormire da loro. Spaghetti al pomodoro e concludiamo la giornata in un container arredato IKEA che è una degli alloggi che UNHCR mette a disposizione per gli ospiti. All’inizio la sensazione è straniante, ma poi un po’ (un po’) ci siamo sentiti a casa.
*Stefania Morri, giovane medico con il CCM a Filtu.