Tutti i ritardi dell’Italia per una «crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» che iniziano tra i banchi. Diritto all’apprendimento, oltre ai Neet ci sono altri problemi. A partire dagli Esl.
di Vittoria Gallina
I temi dell’apprendimento e della scuola sono tornati alla ribalta della cronaca di questi giorni, ma uno degli obiettivi che già il Consiglio Europeo ha indicato come prioritario per le politiche educative nella definizione della strategia di Lisbona 2000 è quello di garantire a tutti i giovani equità nei livelli culturali di partenza, questo al fine di garantire pari opportunità agli individui e di contenere il rischio – nel medio-lungo periodo – di limitare in senso qualitativo e quantitativo fenomeni che influiscono negativamente sul capitale umano e sociale disponibile entro gli stati membri.
Non sarebbe infatti possibile perseguire gli obiettivi di competitività, collaborazione e inclusione che l’Europa dichiara di perseguire, se i sistemi scolastico/formativi non riuscissero a sostenere percorsi di formazione per tutti e garantire politiche di apprendimento permanente.
Nel 2010, e ancora nel documento strategico Europa 2020, laddove si parla di crescita intelligente, sostenibile e inclusiva i benchmark di riferimento collegano tre aspetti fondamentali per qualsiasi politica di lifelong learning e di inclusione sociale: contenimento dell’abbandono scolastico al di sotto del 10% dei ragazzi in età, conseguimento di una laurea da parte di almeno il 40% dei 30-34enni, superamento della soglia del 12,5% della partecipazione della popolazione adulta ad attività di istruzione/formazione. Su questi temi gli stati membri sono impegnati a costruire strategie e percorsi nazionali.
L’Europa ha prodotto un indicatore, l’ESL (early school leavers) che si basa sul calcolo dei 18-24enni che possiedono, come titolo di studio più elevato, quello rilasciato al completamento della scuola secondaria di primo grado (Isced 2), e non sono impegnati in attività di studio o di formazione. Confrontando i dati italiani con quelli europei (anno 2012) risulta che la quota di ESL in Europa è il 12,8% nella fascia di età, mentre in Italia è il 17,6%; va comunque tenuto presente che, rispetto al 2011, il dato registra un calo di circa l’1% sia in Europa che in Italia.
Tuttavia un fenomeno particolarmente preoccupante riguarda i maschi italiani, che risultano non solo sono più ESL delle femmine italiane, ma soprattutto dei colleghi europei (M italiani 20,5% contro M EU 15,5%, F italiane 14,5% contro F EU 11%).
L’Italia è il terzo dei paesi meno virtuosi (dopo Portogallo e Spagna), ma in alcune regioni del Centro- Nord le cose sembrano andare un po’ meglio. Che si tratti di una vera emergenza educativa, che nell’attuale drammatico momento di lunga crisi acquista sempre di più i caratteri di una drammatica emergenza sociale, è evidenziato dalla lettura dei dati che Istat fornisce in relazione al titolo di studio posseduto dai NEET (giovani 15-34enni che non rientrano né nella scuola né nella formazione professionale, e che nemmeno lavorano).
NEET dai 15 ai 34 anni per titolo di studio nel 2011 – dati Giovani, fonte IstatIl dato è impressionante se si considera soprattutto che, almeno fino a 16 anni, i giovani italiani dovrebbero essere ancora a scuola o in percorsi di istruzione/formazione, o comunque inseriti in situazioni di apprendistato o di formazione professionale, secondo quanto previsto dalla normativa vigente relativa ai 10 anni di obbligo di istruzione ( legge 296/2006; DPR 87. 88,89/2010; DL 167/2011).
La polemica presente sui giornali in questi giorni sulla drammatica situazione della disoccupazione giovanile italiana dimostra incertezza ed ambiguità nella interpretazione dei dati, ma soprattutto mette in evidenza il fenomeno della dispersione scolastica, che si concentra proprio in alcuni momenti dei percorsi legati all’esercizio del diritto allo studio, diritto sancito dalla Costituzione.
Nel quadro delle attività che i singoli stati devono realizzare, in vista del contenimento del fenomeno del ESL, il MIUR ha predisposto in modo – si spera – definitivo un focus sulla dispersione entro l’Anagrafe nazionale degli studenti.
Un riferimento unico e omogeneo a livello nazionale appare essere una soluzione opportuna, anche se ancora non completamente rispondente alle necessità che il fenomeno evidenzia (tenendo conto di un dato raccolto in forma aggregata nelle scuole, che rende per ora difficile seguire la storia del singolo “disperso”, scollegamento col Sistema Nazionale di Valutazione ecc).
Comunque qualcosa si sta muovendo anche nella direzione di affrontare gli aspetti qualitativi del fenomeno, oltre a quelli qualitativi Il progetto Frequenza 200, che la ONLUS Intervita promuove da molti anni, ha permesso raccogliere molta informazione sul fenomeno, di costruire percorsi efficaci ed ora di proporre un network dedicato. L’impegno e l’interesse mostrato dal MIUR per questo progetto appare un fatto positivo , soprattutto se si riuscirà ad evitare che anche questo divenga uno dei tanti progetti diffusi nella scuola italiana e poi lasciati a malapena sopravvivere.
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