Il ritorno alle strategie precedenti non è la soluzione: occorre guardare alla domanda interna. I problemi: ineguaglianze dei redditi, ruolo declinante dello Stato, settore finanziario debolmente regolamentato.
di Umberto Mazzantini
Secondo il Trade and Development Report 2013 dell’United Nations Conference on Trade and Development (Unctad), «i Paesi devono darsi nuove politiche economiche per adattarsi ai cambiamenti strutturali che l’economia mondiale ha conosciuto dopo l’inizio della crisi mondiale 5 anni fa».
Presentando il rapporto Alfredo Calcagno, della divisione globalizzazione e strategie dello sviluppo dell’Unctad, ha detto: «Cerchiamo di comprendere questa crisi sul lungo termine e, se è una crisi strutturale come pensiamo, questo significa che sono necessari dei cambiamenti considerevoli in materia di politiche economiche».
Il rapporto Unctad critica duramente le politiche neoconservatrici: « Cinque anni dopo l’inizio della crisi finanziaria mondiale, l’economia mondiale è sempre allo sbando. Malgrado le politiche monetarie fortemente espansive, i grandi Paesi sviluppati non sono riusciti a rilanciare l’offerta di credito e la domanda globale. L’austerità di bilancio e le compressioni salariali osservate in molti dei Paesi sviluppati continuano ad offuscare le prospettive a breve ma anche a medio termine. L’onere di aggiustamento degli squilibri globali che hanno contribuito allo scoppio della crisi finanziaria continua a pesare sui Paesi in deficit, mettendo in evidenza le forze deflazionistiche all’opera nell’economia mondiale».
Il rapporto evidenzia che «Il dominio della finanza sull’economia reale perdura e potrebbe essersi accresciuto. Pertanto le riforme finanziarie condotte a livello nazionale sono state, al meglio, timide e – fino a quando sono andate avanti – molto lente. Nel 2008 e nel 2009, i decisori di diverse potenze economiche hanno chiesto riforme urgenti del sistema finanziario e monetario internazionale. Ora lo slancio riformista sembra essere scomparso dall’ordine del giorno internazionale, dove continuano ad aleggiare le incertezze che riguardo alle prospettive dell’economia mondiale ed alle condizioni economiche dello sviluppo».
La ricetta dell’Agenzia per il commercio e lo sviluppo dell’Onu va in tutt’altra direzione: «I Paesi sviluppati devono agire più risolutamente per rimediare alle cause fondamentali della crisi, in particolare l’aumento delle ineguaglianze dei redditi, il ruolo declinante dello Stato, il ruolo predominante di un settore finanziario debolmente regolamentato e la presenza di un sistema internazionale incline agli squilibri».
L’Unctad non è affatto convinta che l’economia mondiale stia uscendo dalla crisi, come c si affanna a ripetere invece anche il governo italiano, e fa notare che «La crescita della produzione mondiale, che era già rallentata dal 4,1% nel 2010 al 2,8% nel 2011, poi al 2,2% nel 2012, non solo non dovrebbe riprendersi nel 2013, ma potrebbe ancora rallentare al 2,1%».
L’economia della maggior parte dei Paesi sviluppati risente ancora della crisi finanziaria ed economica del 2008. «In particolare, una creazione di posti di lavoro insufficiente ee la crescita debole che si continua ad osservare in diversi tra loro attiene in parte alla loro politica macroeconomica», afferma il rapporto.
L’Unctad fa notare che «Prima della Grande recessione, le esportazioni dei Paesi in via di sviluppo e dei Paesi in transizione aumentavano rapidamente, trainate dal dinamismo della domanda nei Paesi sviluppati, principalmente gli Usa. A quell’epoca, la scelta di un modello di crescita basato sulle esportazioni sembrava giustificato. Ora, l’espansione dell’economia mondiale, anche se è stata profittevole per numerosi Paesi in via di sviluppo, si basa su un’evoluzione non sostenibile della domanda mondiale e dei modelli di finanziamento. Il ritorno alle strategie di crescita pre-crisi non può quindi in alcun caso essere una soluzione.
Per adattarsi a quel che appare attualmente come un riorientamento strutturale dell’economia mondiale molti dei Paesi in via di sviluppo e dei Paesi in transizione saranno costretti a rivedere le loro strategie di sviluppo troppo dipendenti dalle esportazioni». E si sta parlando di giganti come Cina, India, Brasile, Sudafrica e di popolosissimi paesi in via di sviluppo come Indonesia o Nigeria, che «Devono rivedere le loro strategie di sviluppo e basarsi maggiormente sulla domanda interna e regionale». Un cambiamento di rotta che comporterà problemi anche per un Paese esportatore come l’Italia.
L’Unctad ammette che «L’idea non ha niente di nuovo. Strategie di crescita che si basano essenzialmente sulle esportazioni e che sono applicate simultaneamente da numerosi Paesi, prima o poi raggiungono facilmente i loro limiti: la concorrenza fondata sul basso costo unitario del lavoro e su una fiscalità bassa è una corsa al ribasso che non contribuisce allo sviluppo ma che può avere delle conseguenze sociali catastrofiche. Nelle attuali circostanze, dove il progredire della domanda dei Paesi sviluppati dovrebbe languire per molto tempo, i limiti di questa strategia hanno la forza dell’evidenza. E’ per questo che è indispensabile riequilibrare i motori della crescita a beneficio della domanda interna».
L’idea non sarà niente di nuovo, ma raramente un’organizzazione internazionale aveva fatto una critica così spietata della globalizzazione capitalista. Il Rapporto Unctad è consapevole che quella che lancia «è una sfida formidabile per tutti i Paesi in via di sviluppo, che sarà più difficile da sostenere per alcuni che per altri e che, in tutti i casi, esige una rivalutazione completa del ruolo dei salari e del settore pubblico nello sviluppo».
Lo sguardo non è più quello “occidentalecentrico”, ma quello della maggioranza del mondo che vive e lavora nei Paesi in via di sviluppo e l’Unctad conclude: «A differenza della crescita trainata dalle esportazioni, le strategie di sviluppo che privilegiano la domanda interna possono essere condotte in tutti i Paesi simultaneamente senza impoverire il vicino e senza concorrenza salariale e fiscale controproducente. Inoltre, se numerosi partner commerciali del mondo in sviluppo riescono ad accrescere simultaneamente la loro domanda interna, possono stimolare il commercio Sud-Sud».
A leggere bene questo rapporto ci si trovano le ragioni delle tragedie dei migranti che affogano nel Mediterraneo, che sono tutte interne a questo modello economico in crisi, e si scopre che un’altra globalizzazione è possibile. Per uscire dalla crisi mondiale causata dall’ideologia neoconservatrice bisogna cambiare modello e paradigma, non sarà facile e probabilmente doloroso, anche per noi, ma sembra inevitabile.
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