Durante le recentissime Giornate di Bertinoro uno dei relatori invitava a cogliere “i segnali deboli” dell’innovazione. Una modalità suggestiva che fa il paio con quella che afferma il carattere periferico delle pratiche innovative. Serve quindi un buon apparato uditivo per coloro che si candidano a promuovere e sostenere percorsi di innovazione, anche nel campo dell’imprenditoria sociale. Un’innovazione che, recuperando un altro passaggio degli interventi che si sono susseguiti nella due giorni organizzata da Aiccon, sia in grado di trasformare alla radice i rapporti tra le istituzioni che regolano la produzione di economia e socialità.

Iris Network ha cercato di contribuire al dibattito guardandosi dentro, ovvero cercando di valorizzare il materiale esperienziale accumulato in questi ultimi anni. Per la precisione 192 buone pratiche presentate e discusse nel corso delle ultime cinque edizioni del suo Workshop che hanno trattato del rapporto tra innovazione e impresa sociale. Una banca dati spuria che è stata ricostruita e analizzata attraverso un processo di categorizzazione dei contenuti a tre diversi livelli:

1) i prodotti, sfuggendo però dalla prospettiva riduzionalista che tende a farli coincidere – anche a livello normativo – con i settori di attività, ma piuttosto cercando di evidenziare i tratti che li rendono di “interesse pubblico”, consentendo così una fruizione autenticamente condivisa;

2) i processi attraverso i quali avviene la produzione di questi beni, considerando che spesso coinvolgono diversi soggetti e attraversano diverse organizzazioni;

3) le azioni attraverso cui l’innovazione si estrinseca.

I risultati sono ancora provvisori e meritano ulteriori approfondimenti, ma alcune linee guida emergono in modo piuttosto chiaro. In primo luogo la gamma della produzione non è monopolizzata da beni come cura e inclusione che sono direttamente riconducibili alle caratteristiche dei vestito giuridico dell’impresa sociale, in particolare nella sua forma cooperativa. Esiste infatti una presenza significativa di buone pratiche dove l’innovazione consiste nel generare coesione ad ampio raggio a favore non di specifici target di utenti ma di più vaste e articolate comunità. E ancora si evidenzia una certa diffusione di economie locali a elevato impatto sociale. In secondo luogo si nota un’enfasi più polarizzata su alcuni processi – partnership, inserimento lavorativo, community building – anche se emergono, soprattutto nelle edizioni più recenti del Workshop, iniziative che scaturiscono da processi di rigenerazione, sia in senso stretto (relative cioè al recupero di strutture e spazi pubblici), sia latamente intese e riferiti in particolare a cambiamenti a livello di organizzazione interna. Infine le azioni si manifestano, non soprendentemente, secondo svariate modalità, con un perno rappresentato dai servizi di welfare, soprattutto su base locale.

Se si incrociano beni prodotti con processi e azioni si evidenziano le affinità elettive, alcune ben conosciute altre che invece rappresentano una relativa sorpresa. Tra i legami attesi si possono ricordare la produzione di coesione e di economie locali grazie a processi di partenariato, community building e rigenerazione e il rapporto molto stretto tra inclusione e inserimento lavorativo. Le correlazioni meno scontate riguardano invece i processi di cambiamento organizzativo che appaiono strettamente correlati alla produzione di beni di cura e all’avvio di iniziative nel campo dell’innovazione tecnologica e della creazione d’impresa. Come dire che oggi il core business di molte imprese sociali è sottoposto a mutamenti rilevanti che lanciano segnali tutt’altro deboli e periferici. Segnali che attendono di essere colti…

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