Il prolungarsi del difficile momento che il nostro Paese sta attraversando a causa della mutazione e crisi non solo economica ma sociale, culturale e antropologica, interessa le donne in modo del tutto particolare. In questo quadro così avvilente diventa tutto più complesso: l’unica tentazione che ci assale è quella di lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, dalla rinuncia, dalla delusione e dalla chiusura nel proprio guscio.

In questo contesto, ciò che sconcerta è l’assuefazione alla normalità. Nell’Italia dei nostri tempi - ha sottolineato Ilvo Diamanti nel suo intervento all’ultimo convegno studi delle Acli a Cortona (Arezzo) - l’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale ha come principale – e quasi unica – soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d’opinione che si traduce nel “non voto”. Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale, d’altronde, alimenta il disincanto, se non l’indifferenza, verso la democrazia. In particolare, rafforza l’abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo. Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze “non politiche”. Cioè, da larghe intese imposte – e, comunque, giustificate – dall’emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre.

Il rischio è che l’attuale situazione rallenti ulteriormente il già lento processo di inclusione e di partecipazione delle donne nel mondo lavoro e nella vita pubblica. Inoltre, i tagli della spesa sociale finiscono per ridurre i già pochi servizi a sostegno della conciliazione tra lavoro di cura e lavoro extra-familiare e la già difficoltosa partecipazione sociale ed economica femminile, tra gli squilibri e le inefficienze della società in cambiamento.

Occorre che le donne incomincino ad affiancare ai temi (nodi) storici (pari opportunità, conciliazione, violenza, lavoro, sociale) anche quelle politiche che sono quasi esclusivamente affrontati dagli uomini: politica industriale, ambientale, politica economica e finanziaria.

Sappiamo che gli studiosi sostengono che uno dei motivi della scarsa partecipazione delle donne alla vita sociale ed economica è il limitato contributo degli uomini alla vita familiare. Ancora oggi, nelle coppie italiane la modalità prevalente è quella che prevede tutto il tempo di cura dei figli a carico delle donne (41%) o, comunque, oltre i tre quarti del tempo di cura (13% delle coppie).

Malgrado ciò, gli ultimi dati sull’occupazione sembrano disegnare un mercato del lavoro a tinte più “rosa”, maggiormente inclusivo per le donne. Nel quale addirittura sempre più madri conquistano il titolo di “capofamiglia”, portano a casa il salario che mantiene l’intero nucleo. E invece, purtroppo, si tratta più che altro di distorsioni statistiche, di un portato negativo di questa infinita crisi economica.

Sì, le donne in Italia resistono meglio alla recessione che falcia posti di lavoro a centinaia di migliaia. Ma solo perché lavorano in settori più “protetti” come i servizi di cura. Perché hanno una migliore capacità adattiva e accettano più facilmente occupazioni meno qualificate e meno retribuite (job=lavoretto) rispetto al loro livello d’istruzione o alle loro abilità. E infine diventano capofamiglia, breadwinner come si dice in gergo sociologico, non tanto perché siano cresciuti i loro stipendi medi, ma perché i loro mariti perdono il posto e molte, da casalinghe che erano, sono tornate nel “mercato del lavoro”, per assicurare almeno un’entrata alla famiglia. Non è la situazione delle donne a essere migliorata, allora. È peggiorato il quadro complessivo.

Siamo purtroppo ancora molto lontani da una reale valorizzazione dell’apporto femminile al mondo del lavoro. Lo si può facilmente dedurre esaminando i dati. Il primo riguarda il fatto che l’occupazione femminile cresce il doppio di quella maschile solo nelle professioni non qualificate, nonostante le donne siano ormai oltre la metà dei laureati in Italia, con votazioni mediamente più alte rispetto a quelle dei “colleghi” maschi. Ma, soprattutto, è interessante notare come il mercato del lavoro abbia fortemente “selezionato” l’ingresso o la permanenza delle donne in questi anni. Con le giovani sempre escluse e le donne più “mature” accolte a braccia aperte (purché si adattino, ovviamente). L’incremento di occupazione femminile registrato lo scorso anno, infatti, ha riguardato esclusivamente le ultra 50enni, rimaste al lavoro o assunte, perché considerate non più «in età fertile». Il rapporto tra lavoro e maternità resta, insomma, una contraddizione largamente non risolta per le nostre imprese. Ragazze che non possono neppure accennare all’intenzione di sposarsi, pena il mancato rinnovo del contratto a termine; lavoratrici autonome senza tutele e che perciò devono rinviare all’infinito la realizzazione del desiderio di diventare madri. Dipendenti che vengono subito allontanate, quasi fossero delle “traditrici”, all’annunciarsi di una gravidanza.

Eppure diversi studi, ormai, hanno dimostrato come i costi reali che un’azienda si trova ad affrontare per la maternità delle dipendenti sono irrisori rispetto a molte altre voci del bilancio. E che una politica del personale capace di riconoscere le esigenze delle madri ripaga, poi, in termini di aumento di produttività, apporto creativo e fedeltà aziendale. Alcune imprese, per lo più grandi e multinazionali, lo hanno compreso e hanno messo in campo progetti di conciliazione tra vita e lavoro, basati in gran parte sull’offerta di servizi: dall’asilo aziendale alla lavanderia, dai buoni per la baby sitter alla preparazione del cibo da asporto. Ottimi supporti, anche se rivelano pur sempre un approccio tradizionale e una preoccupazione antica: quella di far passare alle dipendenti più tempo in azienda e meno a casa.

Nell’era del cambiamento fra globalizzazione e rivoluzione informatica, ci si chiede: non si riesce a immaginare nulla di diverso per i lavoratori che “legarli” a una postazione dalle 8,30 alle 17,30 (e meglio se oltre...)? Lavorare per progetti, a distanza, operare con part-time orizzontali o verticali, più semplicemente con orari elastici e un’alternanza tra presenza in azienda e lavoro a casa propria appaiono ancora come chimere. Eppure è dimostrato scientificamente: si lavora di più e meglio se si può conciliare vita familiare e professionale. Senza dover rinunciare all’una o all’altra, né a stare un tempo adeguato con i figli, né a condividere l’esperienza del lavoro con i colleghi in ufficio. Senza doversi sentire dimezzati come genitori o come lavoratori/lavoratrici. Ripensare i modelli organizzativi, in questi tempi di crisi, non è un lusso. Ma l’occasione di progettare un nuovo sviluppo per tutti più umano e promuovere, anche a livello simbolico e culturale, l’idea di parità e di condivisione tra i generi.

La vera sfida a cui tutti siamo chiamati nei prossimi anni è, infatti, quella di coinvolgere sempre più gli uomini in un cambiamento culturale improrogabile, per far capire che la parità di genere e la conciliazione non sono “questioni femminili”, ma un tema che coinvolge entrambi i sessi sulla base di una diversa concezione di responsabilità e di una migliore distribuzione fra uomini e donne degli impegni familiari.

L’Italia ha bisogno di un profondo rinnovamento e di un cambio di prospettiva: le donne possono e devono essere protagoniste nell’affrontare le sfide di questo cambiamento. (http://www.acli.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=8237:esserci-per-cambiare-la-partecipazione-in-tempo-di-crisi&Itemid=115)

di Coordinamento Donne Acli

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