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tanti discorsi relativi alle potenzialità dell’imprenditoria sociale come strumento per migliorare la società hanno contribuito a portare all’attenzione di chi si occupa di questioni sociali, ambientali e culturali un tema che in questi mondi è sempre stato considerato un po' ostico: quello della sostenibilità economica delle organizzazioni che si pongono obiettivi non (solo) economici.
Una questione centrale che lo diviene ancor di più in un contesto in cui le fonti di finanziamento tradizionali del mondo not for profit (donazioni da privati, grant pubblici e privati) tendono a ridursi sempre più di anno in anno. Il tema chiave da affrontare ora non è più solo quello di come gestire nel modo più efficace ed efficiente possibile un tot di risorse date, ma quello di capire chi, quanto e come può pagare per i beni o servizi che una determinata organizzazione offre, in risposta ad un bisogno sociale, ambientale o culturale.
Il fenomeno dell'imprenditoria sociale introduce quindi improvvisamente nel mondo di quelli che “fanno del bene” una serie di termini e concetti che sono propri del mondo for profit, in particolar modo del mondo delle startup. Proprio quest’ultimo aspetto rende probabilmente più “digeribile” questo travaso di competenze e riferimenti culturali. Non si tratta infatti di applicare al mondo non for profit degli strumenti e delle tecniche provenienti dal mondo delle grandi aziende. Ma di permeare chi si occupa di ambiente, cultura e società di spirito imprenditoriale, della capacità di leggere antichi e nuovi bisogni e di organizzarsi per dare loro una risposta diversa, nuova o semplicemente più adatta di quelle attualmente esistenti.
Della capacità di intravvedere delle opportunità e trasformarle in potenziali ricavi, in un lavoro. Il che, di per sé, è un fatto che non riesco a considerare in altra maniera se non positivo, in un contesto generale in cui creare lavoro è sempre più complicato e in cui chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro sempre più sarà obbligato ad inventarsi un lavoro.
Occorre quindi attrezzarsi culturalmente per questo nuovo mondo. Ed è una cosa saremo obbligati a fare tutti, indipendentemente dal settore in cui lavoriamo o lavoreremo. Per chi è impegnato in organizzazioni con una finalità sociale, ambientale o culturale quella che potremmo chiamare una sorta di educazione all’imprenditorialità sarà doppiamente importante. Sia perché un certo grado di mentalità imprenditoriale sarà richiesto in ogni settore. Sia perché questo tipo di mentalità è tanto più utile là dove i “mercati” di riferimento sono meno presidiati. E non vi è alcun dubbio che siano proprio i bisogni ambientali, sociali e culturali quelli che risultano ad oggi inevasi.
Se da un lato infatti i bisogni “tradizionali” risultano acuiti dalla crisi sociale ed economia che stiamo attraversando da ormai cinque anni, dall’altro lato i mutamenti legati ai nostri stili di vita e di consumo tendono a far emergere nuovi e più frammentati e multiformi bisogni, a cui praticamente nessun attore tradizionale, pubblico o provato che sia, riesce a dare una risposta efficace ed efficiente. In parte perché ancora manca la capacità di leggerli questi bisogni. In parte perché le risposte che si sono trovate sono molto spesso parziali.
È in questi ambiti allora che si apriranno, per chi vorrà coglierle, una quantità enorme di opportunità. E chi saprà coglierle potrà dirsi soddisfatto sia per aver dato vita a nuovi posti di lavoro sia, soprattutto, per aver fatto qualche cosa in grado di migliorare la qualità delle vite di chi gli sta intorno.
Occorre però fare sempre attenzione a non pensare che determinate teorie e modelli sviluppati per il mondo delle startup digitali possano essere pedissequamente prese e applicate al mondo dell’imprenditoria sociale. Sono però delle utilissime suggestioni che ci spingono a ripensare al fare (impresa) sociale in modo radicalmente diverso, con una attenzione maggiore alla dimensione economica di questo fare. Definizioni e strumenti che vanno adattate ad organizzazioni che hanno l’obiettivo di avere un impatto positivo sulla società e non solo quello di fare tanti soldi.
Cos’è quindi che il mondo not for profit può imparare da quello delle startup? Proviamo a costruire qualche ponte concettuale, senza la pretesa di essere eccessivamente esaustivi.
Secondo Steve Blank, imprenditore seriale e docente di imprenditorialità nelle principali università degli Stati Uniti, una startup è una organizzazione formata per cercare un modello di business che sia contemporaneamente scalabile e ripetibile. La parte per me più interessante di questa definizione, che può tornare utile a chi si vive come un imprenditore sociale, è contenuta nel verbo cercare. Nel pensare ad una nuova impresa come una organizzazione che è alla ricerca di risposte. Che dedica i suoi primi mesi di vita per testare le ipotesi che stanno alla base del suo stesso essere al mondo. Che rimane “alla ricerca” fino a quando non ha trovato delle risposte convincenti a tutte le sue domande. Che chiede inizialmente quel tanto di finanziamenti che bastano per compiere questo percorso.
E che solo dopo aver testato adeguatamente tutte le ipotesi relative al proprio modello di business, ricerca soldi per finanziare un percorso di rapida crescita, promettendo di generare ingenti profitti che andranno ad arricchire chi avrà creduto in quella organizzazione, investendoci in un momento in cui le cose non erano così chiare.
L’oggetto della ricerca di una startup digitale è un business model scalabile, ovvero un modo per fare tanti tanti soldi. E farne sempre di più e sempre più rapidamente al crescere della dimensione dell’impresa. La scalabilità è un concetto molto interessante, ancora troppo poco esplorato, che torna particolarmente utile ai nostri ragionamenti perché permette di evidenziare similitudini e differenze tra una startup digitale ed una a finalità sociale.
Per scalabilità si intende quella proprietà per cui all’aumento del giro di affari di una determinata organizzazione corrisponde una diminuzione dei costi marginali di produzione dell’organizzazione stessa. Il che vuol dire, in parole povere, che si tratta di una impresa che può crescere esponenzialmente richiedendo, in proporzione, sempre meno investimenti e quindi garantendo, in linea teoria, profitti sempre più alti.
È questa proprietà, la scalabilità, ad essere la più ricercata di tutte dagli investitori di rischio. È questa proprietà, quella che tutte le startup digitali ricercano per il proprio business model. Ed è la ricerca di questa proprietà che viene finanziata nei round primi round di investimento di una startup, quelli che servono per permettere ad un team di realizzare il prototipo di un determinato prodotto servizio, testarlo su una nicchia di mercato, cercare di capire se c’è un numero abbastanza grande di persone che utilizzerebbero quel prodotto o servizio tale da giustificare tutta l’operazione e capire quali siano i modi meno costosi e più efficaci per venderlo.
Chi si occupa di startup sa che nel trovare una risposta a tutte queste domande probabilmente una determinata organizzazione cambierà volto un numero indeterminato di volte. E che solo dopo aver trovato una risposta a tutte queste domande, mettendosi in discussione ed esplorando strade alternative, quella stessa organizzazione potrà risultare appetibile per investimenti ancora più ingenti, finalizzati alimentare la domanda del bene o servizio prodotto (farla conoscere a livello sovra locale, internazionalizzarle) e a strutturare l’organizzazione in modo da poter essere in grado di soddisfare quella domanda (assumere personale capace di gestire un percorso di crescita). Situazione questa in cui si vengono a trovare un numero davvero esiguo di realtà, circondate da una marea di “esperimenti” che non sono andati a buon fine. Ma che avranno contribuito, in un lasso di tempo relativamente breve, a dare luogo ad una sorta di “apprendimento collettivo” a cui è associato un costo nettamente più basso che in passato.
Quanto di tutto questo ha senso per un impresa a finalità sociale? Molto, in termini di processo. Quasi nulla, per quanto riguarda tutto il resto, perché l’imprenditore sociale non sarà interessato tanto a perseguire una crescita finalizzata alla generazione di profitti sempre più grandi, quanto alla generazione di un impatto sempre più significativo sull’ambiente economico e sociale in cui è inserito.
E questo cambia praticamente tutto in termini sostanziali. Ciononostante la logica sottesa a questa ricerca rimane la stessa. Ed è utilissimo provare a rileggere quei processi di innovazione sociale che prendono la forma di imprese sociali in questa prospettiva. Immaginando cioè di investire una moltitudine di somme relativamente piccole per permettere ad un numero elevato di soggetti di sperimentare.
Sperimentare soluzioni innovative per soddisfare quei bisogni emergenti di cui abbiamo parlato, alla ricerca sia di potenziali fonti di ricavo ma anche del modo più efficace e sensato per rispondere ad un determinato bisogno. Per una impresa a finalità sociale non sono infatti importanti tanto i margini di profitto (che ci devono essere, quantomeno in misura tale da permettere all’organizzazione di stare in piedi), quanto la effettiva capacità di quell’organizzazione di fornire soluzioni di qualità, di arrivare a offrire il proprio servizio alle persone più bisognose, di farlo generando capitale sociale e relazioni, di farlo generando senso.
E sono proprio queste caratteristiche quelle che dovrebbero ricercare quegli investitori di rischio che dichiarano di avere anche finalità sociali. Investitori consapevoli del fatto che queste “avventure” molto probabilmente non saranno finalizzate ad una crescita dimensionale spasmodica, per il semplice fatto che le innovazioni sociali, per le loro caratteristiche, si diffondono e si propagano non solo e non tanto attraverso logiche aziendali, ma anche e soprattutto attraverso dinamiche collaborative, fenomeni di emulazione, pratiche di replicabilità e forme di istituzionalizzazione da parte di attori pubblici a vario livello. Ma che richiederanno le stesse dinamiche di apprendimento collettivo tipiche del mondo delle startup, così come richiederanno la stessa passione, la stessa visione imprenditoriale e la stessa capacità di creare nuovi mercati richieste agli startupper “digitali”.
Se il mondo delle startup digitali sembra aver costruito nel corso dell’ultimo decennio un solido ecosistema a favore di quel tipo di imprenditoria, composto di una molteplicità di attori che condividono a grandi linee gli stessi valori, sogni, strumenti, metodi e incentivi, oltre che la stessa etica, lo stesso non si può dire per il mondo dell’imprenditoria sociale. Che potrebbe mutuare tante cose da questa esperienza, come abbiamo visto, ma che deve sforzarsi di sottolineare lucidamente gli elementi di unicità connessi con l’idea del fare impresa sociale, costruendo da zero un ecosistema che sia utile per i propri scopi.
Un ecosistema che sia in grado di considerare la dimensione economica del fare impresa come strumentale alla generazione di impatti positivi nella società, di misurare il valore sociale che produce sia in termini quantitativi che qualitativi ed in grado di far emergere coloro che meglio riescono a bilanciare la dimensione economica con quella sociale. (
http://www.doppiozero.com/materiali/chefare/scalare-non-e-un-rischio)
Davide Agazzi