Bassa produttività del capitale si intreccia con quella dei lavoratori. Serve risposta sostenibile. Lascia i banchi di scuola ancora il 20% dei ragazzi italiani, e la bassa performance del capitale si intreccia con quella dei lavoratori.

di Luca Aterini

Ci pensano i dati diffusi oggi dal Cnel all’interno del suo nuovo rapporto sul mercato del lavoro a riportare coi piedi per terra chi avesse paura a toccare il corpo politico di questo governo in decomposizione, infischiandosene di quello che viene bollato come il solito balletto di interessi personali (e di un uomo in particolare) nelle sale dei bottoni italiane. La perpetua instabilità politica è infatti un fattore determinante nella nostra incapacità di gestire una recessione e l’aumento della disoccupazione che ne consegue, per non parlare del ruolo che ha nel frenare la possibile elaborazione di qualsiasi alternativa all’austerità in sede europea. Chi ha scarso peso politico in Italia come può infatti pretendere di averne in Europa?

Non stupisce dunque che questo limbo economico e politico si faccia sempre più profondo col passare degli anni, trasformandosi in baratro sociale. Come riporta il Cnel nel suo studio, «la contrazione del prodotto cumulata dall’avvio della crisi ha raggiunto l’8 per cento: una caduta di tale entità non poteva non lasciare tracce profonde nel tessuto produttivo e sulle opportunità occupazionali. Negli ultimi anni abbiamo perso 750mila posti di lavoro», e questo questa recessione sta cambiando anche «la morfologia del mercato del lavoro: aumenta il peso dei giovani NEET, dei lavoratori poveri, dei part-time involontari, dei disoccupati di lungo periodo». In questo contesto, i giovani (15-29 anni) rimangono tra i più penalizzati, con una loro partecipazione al segmento dei lavorativamente attivi che è inferiore al 7% sul totale. Il tasso di disoccupazione tra i 15-24enni segna addirittura l’ennesimo record storico, attenstandosi ad agosto al 40,1%.

Secondo le rilevazioni effettuate dal Consiglio nazionale economia e lavoro abbiamo però una consolazione: «Questo quadro cupo – si legge nel rapporto – è rischiarato da nuovi dati che dicono che il punto di minimo della recessione sembra essere stato toccato», ma per intercettare il cambiamento di una «una ripresa solida e duratura» questa non potrà che essere «trainata da una inversione di tendenza nell’andamento della produttività».

È proprio su questo punto che casca l’italico asino. Nel Bel Paese la produttività è ferma da vent’anni, ma la colpa è da attribuire in gran parte alla mancata produttività del capitale, e non quella del lavoro: nel periodo 1992-2011 la prima è calata infatti in media dello 0,7% e l’altra è al contrario aumentata dello 0,9%, al contrario di quanto comunemente si sostiene nel dibattito pubblico, addossando la colpa al lavoratore sfaticato, sempre e comunque.

Ma l’andamento scoraggiante della produttività del capitale è comunque legato a doppio filo con quello non brillante della produttività del lavoro. In Italia si investe prevalentemente in attività economiche a basso valore aggiunto, per le quali non occorrono lavoratori con particolari conoscenze o elevata istruzione. Non è un caso se coloro che ne abbondano lasciano di frequente il paese, ingrossando quell’ondata di riflusso che la fuga dei cervelli.

Un’economia poco innovativa è l’humus ideale per veder prosperare tassi d’abbandono scolastico da “lavagna nera”, come l’ha definiti Intervita nella sua analisi dell’abbandono scolastico nazionale, diffusa oggi: «Quasi 700.000 ragazzi italiani, 2 su 10 – sottolinea l’ong – lasciano la scuola senza aver conseguito un titolo superiore alla licenza media inferiore, un dato che colloca l’Italia come fanalino di coda d’Europa».

Il modo migliore per promuovere conoscenze, saperi e tecnologie è incentivare la trasformazione della produzione economica in un sistema che ne abbisogni. Un’economia sostenibile investe in innovazione per rendersi più produttiva e meno dissipatrice di risorse fisiche ed energetiche, offrendo al contempo lavori qualificati ai cittadini. Saper cogliere il punto di rimbalzo una volta toccato «il punto minimo di recessione» significa così impegnarsi a capire quale tipo di economia e consumi sia ottimale e socialmente desiderabile: si tratta di un seme assai difficile da far crescere sopra delle macerie, in tal caso politiche, ma si tratta di una sfida che val la pena di essere combattuta.

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