Benché i tagli alla spesa pubblica e la perdita di posti di lavoro rendano la vita delle famiglie sempre più difficile, le fondazioni bancarie non sono riuscite ad accrescere il loro ruolo nell’ambito del terzo settore. Un mancato progresso che si spiega anche con la loro struttura di governance.

Carlo Milani e Andrea Ricci


CDA POCO COMPETENTI

Nel nostro precedente articolo abbiamo posto in evidenza i mancati progressi delle fondazioni bancarie sul fronte della dotazione patrimoniale, della diversificazione dei rischi e della redditività. Qui ci vogliamo invece concentrare sull’efficacia degli interventi messi in atto dalle fondazioni nell’ambito del terzo settore e di come questa attività sia legata alla loro governance.

L’inefficacia e inefficienza delle fondazioni bancarie italiane non è certo una novità. (1) Le fondazioni tendono ad avere una scarsa diversificazione del proprio portafoglio. Al tempo stesso erogano finanziamenti su un ampio spettro di attività, senza una programmazione strategica coerente con i vincoli statutari e normativi. Negli ultimi anni, d’altra parte, non si è registrato un loro ruolo significativo nello sviluppo del terzo settore, dell’housing sociale e di iniziative imprenditoriali innovative a livello locale.

Questi aspetti sono strettamente legati al tipo di governance, caratterizzata da una selezione non efficiente del management e da costi di funzionamento eccessivi.

Per quanto riguarda la selezione del management, vi è innanzitutto un problema di capitale umano. In genere, i membri dei board delle fondazioni non hanno la preparazione economica e finanziaria minima indispensabile per le posizioni che occupano: solo l’1 per cento di coloro che siedono nei cda ha competenze di finanza. (2) In assenza di una elevata specializzazione delle competenze e delle conoscenze del management, le scelte di concentrare gli investimenti in specifiche attività o settori non consente di ottenere un premio in termini di capacità di controllo, mentre si accompagna a una maggiore esposizione al rischio.

Il profilo inadeguato del management a capo delle fondazioni, a sua volta, è il riflesso di un processo di selezione basato su criteri di cooptazione e rappresentatività di gruppi di interesse (almeno un quarto delle poltrone ai vertici delle fondazioni è occupato da individui con esperienza politica). Non sorprende quindi che le nomine possano essere “remunerate” attraverso scelte di finanziamento e investimento favorevoli alle constituency di riferimento (più medici nei board, maggiori gli investimenti in sanità, più i professori negli organi statutari, maggiore la quota di investimenti in istruzione).


COSTI DI GESTIONE TROPPO ALTI

Considerazioni analoghe valgono per i costi di gestione. Le fondazioni sostengono elevati costi fissi per il compenso dei loro pletorici organi statutari. Tanto pletorici da portare ciascun membro ad amministrare in media 150 milioni, dieci volte meno del capitale amministrato da un membro del board delle grandi fondazioni non-profit estere. Le spese collegate agli organi statutari hanno un peso molto importante sul risultato della gestione delle fondazioni: se nel 2006 costituivano circa l’1,5 per cento del totale dei proventi, la riduzione di quest’ultimi e la rigidità verso il basso dei compensi dei board le hanno fatte lievitare fino a circa il 4 per cento nel 2011 e al 3 per cento del 2012. Naturalmente, il problema varia in funzione della dimensione e della localizzazione geografica della fondazioni. La tabella 1 mostra così che in quelle di minore dimensione le spese degli organi statutari erodono oltre l’8 per cento dei proventi accumulati; questo fenomeno è particolarmente evidente nelle regioni del Centro-Sud (6/7 per cento).

Tabella 1. Fondazioni bancarie: incidenza spese organi statutari (in % del totale dei proventi)

Più in generale sul fronte delle spese, si rileva come il costo di gestione delle fondazioni sia andato nettamente aumentando, con un rapporto tra costi e ricavi (cost-income) di oltre il 25 per cento nel 2012, contro il 12 per cento medio del periodo 2006-07. A impattare sui costi operativi è soprattutto la componente del lavoro, con i dipendenti che hanno superato le mille unità negli anni più recenti (800 unità circa nel 2006).

A fronte di queste performance non brillanti, le erogazioni corrisposte mediamente da ogni singola fondazione mostrano una continua tendenza decrescente: dai quasi 20 milioni di euro erogati per fondazione del 2007 si è passati agli 11 del 2012 (tabella 2). Le flessioni più rilevanti hanno riguardato il Centro e il Nord-Est, mentre nel Mezzogiorno c’è stata una buona crescita rispetto al dato del 2006. In ogni caso, nel Sud d’Italia l’apporto fornito al terzo settore dalle fondazioni è pari a meno di 40 milioni di euro nel 2012, appena il 4 per cento del miliardo circa di erogazioni fornite complessivamente.

Tabella 2. Erogazioni per fondazione (in milioni di euro)

In definitiva, il quadro che emerge non sembra molto incoraggiante. In un contesto in cui i tagli alla spesa pubblica e la perdita di posti di lavoro rendono la vita delle famiglie sempre più difficile, le fondazioni non sono riuscite infatti ad accrescere il loro ruolo nell’ambito del terzo settore. Anzi. (http://www.lavoce.info/cosi-le-fondazioni-bancarie-dimenticano-il-terzo-settore/)


Note:

(1) Si veda Tito Boeri e Luigi Guiso sull’intreccio tra le fondazioni e la politica locale. Inoltre, uno studio di Filtri e Guglielmi (“Italian Banking Foundations”, Mediobanca Securities, 2012) solleva diversi dubbi, collegati per lo più alla configurazione più generale delle fondazioni stesse, soprattutto se paragonate con altre esperienze estere. Fondazioni come Guggenheim o Bill&Melinda Gates, ad esempio, sono organizzate e focalizzate intorno al proprio obiettivo: la promozione dell’arte la prima, quella della salute nei paesi in via di sviluppo la seconda, e seguono una strategia di forte diversificazione nella gestione delle proprie risorse.
(2) Si veda ancora il lavoro citato di Filtri e Guglielmi.


Bio dell'autore

Carlo Milani. Economista presso il Centro Europa Ricerche (CER). Svolge prevalentemente la sua attività di ricerca nel campo del banking, ambito nel quale ha pubblicato diversi studi su riviste nazionali e internazionali. E’ inoltre esperto di modelli econometrici utilizzati per la previsione e la simulazione di scenari macroeconomici. Per molti anni ha lavorato presso l'Ufficio Studi dell'Associazione Bancaria Italiana (ABI). E' stato visiting researcher presso la London School of Economics (LSE).

Andrea Ricci. Laureato in Economia Politica presso l’Università “L. Bocconi” di Milano, ha conseguito il Master e il Dottorato in Economia presso l’ Università di Roma “Tor Vergata”. E’ membro di progetti di ricerca nazionali e internazionali e ha pubblicato una serie di saggi e articoli scientifici riguardanti l’analisi analisi del mercato del lavoro, del sistema produttivo e delle relazioni industriali. In particolare la sua attività di ricerca si concentra sull’applicazione dei metodi econometrici per la valutazione delle politica economica. Attualmente è ricercatore in ISFOL.

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