Sono molto contenta di partecipare oggi, 12 settembre, al Workshop dell’impresa sociale 2013, sia per il programma molto interessante delle due giornate, sia perché ritengo una bella opportunità fare incontrare il mondo dell’impresa sociale con i servizi collaborativi italiani. Il workshop che terrò all’interno del convegno, infatti, avrà come titolo “La sharing economy per l’impresa sociale”, con l’obiettivo proprio di stabilire un primo contatto fra queste due realtà per valutarne punti di incontro e possibili sinergie.

I due mondi hanno molto in comune. Ne avevano cominciato a parlare già l’anno scorso Flaviano Zandonai e Paolo Venturi su CheFuturo. Sono imprese sociali, riassumendo in maniera un po’ semplicistica, tutte quelle imprese che producono beni e servizi con finalità sociali e che non ha tra i loro obiettivi principali la ricerca del profitto. In Italia nascono negli anni ottanta a seguito di un’importante stagione di riforme sociali (abolizione dei manicomi, la legge sul collocamento obbligatorio, la riforma delle regioni), rispondendo all’incapacità da parte delle istituzioni e delle imprese tradizionali di soddisfare alcuni bisogni della società. Un po’ quello che è successo alle startup collaborative. Espressione della crisi, i servizi collaborativi non perseguono un’esplicita finalità sociale ma hanno comunque l’obiettivo di offrire modelli alternativi a quelli a cui siamo stati abituati e a generare vantaggi per la società.

A partire da questo contesto comune le imprese sociali, quasi sorelle maggiori, possono offrire alle startup collaborative l’esperienza maturata in quasi trent’anni di attività, seppure ancora oggi il loro sviluppo non sia privo di difficoltà e incertezze. Incontrare le imprese sociali e conoscere la loro storia può essere utile alle startup collaborative per capire, per esempio, come costruirsi un quadro normativo. Sebbene le stesse imprese sociali necessitino ancora di una regolazione completa, nel tempo sono riuscite a dotarsi di quel minimo di leggi che hanno garantito la legittimazione e il proseguimento dei loro servizi. Conoscere la loro storia può aiutare a capire come siano riuscite a trasformarsi, passando da startup a impresa, e su quali asset e bisogni abbiano fatto leva per riunirsi in associazioni di categoria come Federsolidarietà / Confcooperative, o in reti consortili come il gruppo cooperativo Cgm, che hanno diffuso consapevolezza e permesso di portare avanti istanze e problematiche comuni.

Inoltre, le imprese sociali negli anni hanno saputo stabilire un dialogo con le istituzioni, non privo di tensioni, necessario anche per le startup collaborative – e in generale per qualunque iniziativa che pensa di soddisfare bisogni a cui le istituzioni non riescono a rispondere – per prevenire, per esempio, altri “casi Uber”, dove le istituzioni invece che favorire l’innovazione la contrastano. Infine, le imprese sociali sono riuscite anche a stringere un forte legame con la società civile e le comunità di riferimento, bacino di utenti che potrebbero essere assolutamente in target con le startup collaborative.

Queste, a loro volta, possono offrire molto alle imprese sociali che, anche se in continua crescita, si trovano in questi anni a dover affrontare la riduzione sempre maggiore della spesa pubblica, che le costringe a continuare ad innovarsi e ad individuare nuovi mercati di espansione. Lo stesso modello p2p (peer to peer) tipico dei servizi collaborativi, infatti, può essere d’ispirazione sia per l’apertura di nuove imprese sociali che per la crescita di quelle esistenti. Il p2p, mettendo direttamente in contatto le persone, non solo propone nuovi modi di muoversi, di viaggiare, di lavorare, di socializzare e così via, ma anche di vivere i servizi sociali.

Si pensi per esempio a Southwark Circle, una piattaforma inglese che mette in contatto persone che hanno bisogno di aiuto o di compagnia con chi nel vicinato è disposto ad aiutare; o Beatbullying, un social network sempre inglese che facilita l’incontro di giovani che hanno subito atti di bullismo con altri giovani, nella convinzione che i ragazzi preferiscono confidarsi e aprirsi con i propri pari; o, ancora, ifoodshare, una piattaforma, questa volta nostrana, che mette in contatto chiunque voglia donare cibo in eccedenza con chi cerca ceste alimentari.

L’uso delle tecnologie può permettere alle imprese sociali non solo di proporre nuovi modelli e servizi, ma anche di e di essere più facilmente trovate. Se un tempo bisognava conoscere i luoghi in cui trovare i servizi e avere il tempo per raggiungerli, oggi basta aprire il computer o accedere a un’applicazione smartphone e collegarsi. Così è anche più facile raggiungere un pubblico più ampio. Per i servizi collaborativi, infatti, la comunità, asset sulla quale molte imprese sociali fanno leva, non è più quella di quartiere, ma quella digitale. Il vicino non è più soltanto “quello della porta accanto”, ma perde il suo connotato strettamente territoriale e diventa chiunque abbia qualcosa da condividere, che sia una risorsa o del tempo.

Non a caso le piattaforme non si rivolgono più a clienti, ma a membri della loro community a cui cercano di offrire esperienze più che servizi o prodotti, e sul valore espresso vengono misurati. In questo modo riescono non solo ad arrivare a un pubblico più ampio ma spesso anche più variegato, quasi mai ideologizzato, cosa importante se si vuole davvero incidere nella vita di tutti i giorni delle persone.

Questi e altri aspetti verranno indagati nel workshop attraverso un’introduzione che presenterà le caratteristiche dell’economia collaborativa e tramite l’esperienza di alcuni startupper italiani che racconteranno il loro progetto, il loro modo di proporlo e la loro idea per costruire un futuro migliore. (http://www.chefuturo.it/2013/09/imprese-sociali-e-startup-collaborative-due-mondi-che-possono-crescere-insieme/)

Marta Mainieri
Consulente di marketing digitale, mi occupo di sharing economy da quando ho scoperto che condividendo e riusando si guadagna, si fa bene all’ambiente e ci si sente un po’ meno soli. Sono autrice di “Collaboriamo! come i social media ci aiutano a lavorare e a vivere bene in tempo di crisi” (Hoepli 2013) e fondatrice di Collaboriamo.org, un servizio che ha lo scopo di riunire tutti i servizi collaborativi italiani per dargli visibilità e farli conoscere e usare a un numero sempre maggiore di persone.

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