Giustizia. Il voto di ieri, con cui il parlamento del Kenya ha votato per il ritiro del paese dallo Statuto della Corte penale internazionale, è stato giudicato da Amnesty International “un allarmante tentativo di negare giustizia a centinaia di persone”.
È, secondo l’organizzazione per i diritti umani, “inaccettabile cercare di proteggere chi deve rispondere di crimini contro l’umanità per consentirgli di evitare la giustizia”.
Il voto del parlamento del Kenya è arrivato pochi giorni prima dell’inizio del processo, all’Aja, nei confronti del vicepresidente William Ruto, accusato di crimini contro l’umanità in relazione alla violenza post-elettorale del 2007-8. Il 12 novembre dovrebbe iniziare il processo nei confronti dell’attuale presidente, Uhuru Kenyatta (nella foto), indiziato a sua volta di gravi crimini.
Il parlamento di una nazione può decidere in teoria ciò che vuole: può autorizzare interventi militari all’estero, può sottrarre i suoi leader alla giustizia internazionale.
A questo, aggiungiamo che la Corte penale internazionale non è uno strumento perfetto, è legittimo criticarla per essersi prevalentemente concentrata sull’Africa e i risultati di oltre 10 anni di attività giudiziaria sono insufficienti.
Ma a queste due considerazioni ne vanno aggiunte altre.
La prima riguarda il comportamento complessivo degli stati: ci sono voluti quattro anni, dalla sua approvazione, perché lo Statuto di Roma entrasse in vigore; ce ne sono voluti persino di più perché gli stati che lo avevano ratificato, tra cui la stessa Italia, si dessero gli strumenti legislativi necessari per l’attuazione delle sue norme.
La seconda è che le interferenze politiche nei confronti della Corte non sono mancate. Basti pensare alla sollecitudine con cui la leadership della Libia di Gheddafi è stata incriminata, nel 2011, a fronte dei due anni e mezzo di veti al Consiglio di sicurezza riguardo alla richiesta di sottoporre alla Corte i crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel conflitto siriano.
La terza, infine, riguarda il vero e proprio sabotaggio della giustizia internazionale.
Il presidente del Sudan Omar al-Bashir, incriminato dalla Corte, continua a essere “latitante” e viene periodicamente ricevuto da suoi colleghi.
Le nuove autorità libiche hanno lanciato, mesi fa, la prima sfida, annunciando che non avrebbero consegnato alla Corte il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, e il capo dei servizi segreti Abdallah al-Senussi, per processarli in casa, in un paese dove la giustizia ancora non funziona.
Ieri, il voto del parlamento del Kenya, che costituisce un pericoloso precedente per il futuro della giustizia in tutto il continente africano. (
http://lepersoneeladignita.corriere.it/2013/09/06/il-kenya-si-ritira-dalla-corte-penale-un-affronto-alla-giustizia/)
di Riccardo Noury