di Maurizio Calvi Attonito di fronte allo schermo che erutta l'apocalisse, ho visto come la nostra specie può scomparire, allo stesso modo dei dinosauri e di altre migliaia di generi viventi che c'erano e non ci sono più. Semplicemente cancellate da un cambiamento di clima, da una modificazione dell'ambiente. Non si tratta nemmeno di una alterazione, ma di una naturale trasformazione. L'alterazione, quella la produciamo noi, ogni giorno, con l'artificio della infinita edificazione e l'inquinamento artificiale. La natura incurante cambia e cancella interi planisferi di vita, incapaci ad adattarsi. Basta un meteorite indifferente che si muove imperturbato nel suo stato, che incrocia la terra e che buca la sua atmosfera senza sbriciolarsi a renderci succubi delle reazioni geofisiche dell'urto. L'ambiente che credevamo, illusi, di dominare con la tecnologia e l'organizzazione, in un attimo ci dimostra invece quanto ci sovrasta e come rapidamente può farci scomparire con l'irruenza di un'onda e le successive epidemie. Certo noi reagiamo e cerchiamo di riparare. Ma la dipendenza dall'ambiente e non, come spesso ci siamo raccontati, l'ambiente da noi è un fatto inequivocabile e, per fortuna, insuperabile. Siamo sopraffatti, semplicemente sopraffatti dallo stato naturale delle cose. Attonito di fronte alla spinta invadente del mare, lo stesso mare che accarezza le nostre coste, ritrovo la questione permanente della politica ambientale. E penso all'Italia, il più grande museo all'aperto del mondo, bellissimo territorio sismico e nel mare, che ha sbagliato totalmente il suo modello di sviluppo. I due vettori della modernizzazione italiana sono stati l'emblema di una istintiva ignoranza della funzione determinante dell'ambiente e della qualità della vita. Non credo che sia stato soltanto interesse economico e facile guadagno. Credo che sia stata essenzialmente l'ignoranza che deriva dalla omologazione a sostenere un modello di sviluppo costruito sui due vettori della industrializzazione eccessiva e della eccessiva urbanizzazione. Due vettori di modernizzazione alternativi alla cultura dell'ambiente per una nazione che doveva fare delle sue città e delle sue coste luoghi di accoglienza. L'Italia invece è la nazione che ha il più alto tasso percentuale di automobili per cittadini in Europa e la più densa quantità di cemento per metro quadrato. Il contrario di quanto avremmo dovuto avere per rispettare l'ambiente e offrire un modello di sviluppo costruito sul solo vettore della qualità della vita e della fruizione della cultura in senso lato. L'Italia alla fruizione ha preferito il consumo. Il passaggio dalla fruizione al consumo, quasi per omologazione internazionale e per comodità, ha distrutto la nostra identità ambientale e culturale attrattiva davvero sui mercati internazionali. Non c'è stata. Ai piani urbanistici si è preferita la più facile irregolare e utile urbanizzazione. Le regole dello sviluppo ordinato e razionale della città medioevali e rinascimentali sono state frantumate dalla cementificazione incontrollata di imprenditori improvvisati, dalle varianti interessate e dai condoni programmati. I paradossi italiani sono incommensurabili: Venezia, una città conosciuta ovunque nel mondo per la sua particolarissima connotazione ambientale, ha realizzato al suo interno un insediamento industriale inquinante e, ai sui margini, il polo produttivo di Mestre; Gioa Tauro; la Bagnoli ripristinata; Roma, con l'insediamento industriale dimesso della Pirelli a ridosso di Villa Adriana, la stupenda villa a forma di borgo dell'imperatore. Lo sfregio alla cultura e alla natura del forzato modello di sviluppo italiano non ha limiti. Ciononostante la politica dell'ambiente è ancora un'ipotesi, è ancora una prospettiva. Direi la politica dell'ambiente e dell'habitat, cioè della qualità della vita nei luoghi e nelle località italiane così ricche di connotazioni e di identità. La politica dell'ambiente è ancora una prospettiva per l'Italia intera e principalmente per il Mezzogiorno italiano tradito dalla urbanizzazione sfrenata e dalle autostrade. Il Mezzogiorno, che nell'ottica di una politica ambientale avrebbe potuto sviluppare canali di comunicazione e trasporto aerei e marittimi, ha costruito autostrade che hanno schiacciato le città sulla battigia. Piuttosto che i viadotti avremmo potuto costruire aeroporti leggeri e attracchi pesanti nei porti per passeggeri. Né l'uno, né l'altro. Autostrade che hanno deflorato intere vallate, invece, al servizio del trasporto su gomma. Tuttavia una politica ambientale è plausibile soltanto se viene concepita come modello di sviluppo. Altrimenti resta il singolo ed insignificante gesto ecologico. Isole pedonali, smaltimento di rifiuti, verde organizzato, senza un modello di sviluppo sono l'ora d'aria per i carcerati del cemento. Soltanto nell'ambito di un modello di sviluppo post industriale ha senso il recupero urbanistico delle città, la riqualificazione e la differenziazione dei trasporti, il rilancio della qualità della vita nei Comuni del Sud. La politica del consumo contro la fruizione dei luoghi e delle cose ha sostituito il vivere bene con il benessere. Oggi, per conservare il nostro benessere dobbiamo tornare al vivere bene. Ciò è possibile soltanto se la solidarietà verso gli uomini e verso la natura diventa la nervatura del nuovo modello di sviluppo ambientale. Nel quadro di un futuro programma di governo l'UDEUR, deve considerare la questione ambientale come la risorsa principale per lo sviluppo del Sud. Senza una nuova politica ambientale il Meridione non ha prospettive. Il Campanile, 11 gennaio 2005

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