Se l'Ue dicesse sì al reddito minimo. Iniziamo la nuova stagione con un timido profumo di ripresa, ma aggravati da pesanti fardelli del passato, eredità di un "patto" con la speculazione finanziaria, che non riusciamo a scrollarci di dosso. Le strade scelte dai Paesi ad alto reddito per uscire dalla crisi oscillano tra due estremi e un giusto mezzo. Da una parte l’Abenomics giapponese che si disinteressa del tutto del problema dell’ingente debito pubblico giapponese (211% del Pil, oltre un quadrilione di yen, detenuti quasi interamente dai giapponesi stessi, che non hanno certo interesse a far saltare il banco) e, con il raddoppio dell’offerta di moneta, si propone di dare uno choc espansivo all’economia per far ripartire la crescita dopo anni di stagnazione.

All’estremo opposto il rigorismo autistico dell’Unione Europea, che ci impone la regola del 3%, il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Nel mezzo la politica americana dove la Fed ha riconosciuto che l’inflazione è un problema minore in un mondo globale nel quale l’esercito di riserva dei lavoratori a basso costo (1,2 miliardi di persone vivono sotto la soglia di povertà di 1,25 dollari al giorno e 2,7 miliardi sotto i 2 dollari al giorno) rende molto difficile la crescita dei prezzi in settori esposti alla competizione globale. E ha messo al centro l’obiettivo di riduzione della disoccupazione (sotto la soglia del 7%) attraverso una politica di forte espansione monetaria.

Negli Stati Uniti non esistono le linee invisibili del 3%. L’obiettivo dell’equilibrio di bilancio è stato perseguito partendo dalla crescita del denominatore (il Pil) e non dalla riduzione del numeratore. Quindi nessun problema se il rapporto deficit/Pil ha segnato valori del 7% nel 2012, è previsto al 5% nel 2013 e convergerà al 3,7% nel 2014. La scelta della Fed ha senso anche in termini di felicità sostenibile. Gli studi sulla soddisfazione di vita evidenziano infatti l’ovvio, ovvero che la disoccupazione pesa molto di più dell’inflazione sulla possibilità delle persone di realizzare in pienezza la loro esistenza.

Ci vuol poco a capire quanto potrebbero essere utili per il nostro Paese risorse aggiuntive. Sindacati e Confindustria hanno delineato l’altro giorno un bel piano per il rilancio del Paese che punta sullo sviluppo sostenibile, sulla crescita dell’economia verde e delle rinnovabili e su una forte riduzione del cuneo fiscale e del costo del lavoro per rilanciare l’occupazione (ad esempio escludendo il costo del lavoro dall’Irap). Acli e Caritas hanno presentato un rigoroso e articolato piano per l’introduzione del "Reddito d’inclusione sociale", quel reddito minimo in grado di portare la popolazione sotto la soglia di povertà a livelli di vita accettabili, reddito minimo che già esiste in tutti i Paesi dell’Unione ad eccezione di Italia e Grecia. Si tratta, come Avvenire ha più volte spiegato, di una proposta formulata con le giuste caratteristiche di universalismo, adeguatezza, equità territoriale, sussidiarietà e incentivo alla ricerca di lavoro. Una proposta che agirebbe efficacemente nel contrasto alla povertà, con effetti importanti anche di stimolo alla domanda interna. La misura a regime costerebbe 6 miliardi di euro.

Il progetto confindustrial-sindacale e il reddito minimo d’inserimento resteranno nel libro dei sogni se però si pensa (come scritto nei due progetti) di poterle finanziare solamente con tagli di spesa (sempre ardui e, di per sé, recessivi). Basti guardare alla storia della riduzione dell’Imu, affannosamente finanziata con un mix schizofrenico di inasprimento di tasse e di condoni sul vizio.

Quello che ci piace di più della Ue è quando mette sotto controllo la nostra tentazione alla spesa facile e improduttiva, vagliando i nostri progetti d’investimento e quando prende in mano il restauro di Pompei, ma non quando, afflitta dal rigorismo autistico, fissa delle linee invisibili (rapporto deficit/Pil 3%, Fiscal Compact, pareggio di bilancio) che sono la strada sbagliata per realizzare l’equilibrio tra debito e sviluppo.

Ci piacerebbe molto se l’Ue ricordasse che anche la Germania per fare le riforme ha avuto bisogno di 2 punti di deficit/Pil in più. E se, invece che essere dominata dalla prospettiva dei creditori miopi, prendesse un po’ del coraggio americano nel lottare contro la piaga della disoccupazione. Perseguendo con più decisione l’obiettivo della felicità sostenibile. Abbiamo un sogno oggi. Quello di "Stati Uniti d’Europa" che affrontino questa crisi con politiche monetarie e fiscali americane, concedendo ai Paesi del Sud uno sforamento, diciamo così, "sotto tutela" per assicurarsi che la spesa sia destinata alle riforme e non sprecata. (http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/felicita-sostenibile-obiettivo-per-stati-uniti-europa.aspx)

Leonardo Becchetti

Partner della formazione

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