L'uso delle armi chimiche è intollerabile nel mondo contemporaneo, e sono quindi comprensibili le vaste reazioni che l'annunciato uso di queste armi contro la popolazione civile da parte del regime siriano ha sollevato in tutto il mondo.

Gli Stati Uniti si sarebbero fatti convinti del misfatto dopo che l'intelligence israeliana ha fornito loro dettagli precisi, e dopo le denunce di Medici senza frontiere, la nota organizzazione non governativa che era presente in loco e ha prestato i primi soccorsi alle vittime.

Viene annunciata una reazione punitiva armata contro le forze di Assad, che però sarebbe limitata nel tempo e negli obbiettivi e non si proporrebbe un cambiamento di regime.

Il governo britannico ha presentato una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che autorizzerebbe "tutte le misure necessarie, in base al capitolo 7 della Carta dell'Onu, per proteggere i civili contro le armi chimiche".

Ci sono ovviamente scarse probabilità che essa venga approvata, per la prevedibile opposizione di Russia e Cina, ma gli Stati appartenenti alla coalizione interventista, USA, Francia, Gran Bretagna e Turchia, annunciano di voler andare avanti lo stesso. La Lega Araba si è schierata contro Assad, ma non ha avallato l'intervento militare. La Germania si è espressa contro l'intervento, auspicando una soluzione politica, mentre l'Italia ha condizionato la sua adesione alla approvazione dell'ONU.

La missione di ispettori inviata dall'Onu per verificare l'accaduto sul posto ha annunciato che concluderà i suoi lavori in quattro giorni, ma gli Usa hanno già dichiarato che oramai è tardi per trovare le prove, che la missione non serve più.

Tutta l'operazione avviene in un clima vagamente surreale. Vengono ovviamente in mente gli annunci sulle armi non convenzionali in Iraq, ai tempi di Saddam Hussein, rivelatesi poi inesistenti. Certo Obama non è Bush, e non pare particolarmente desideroso di menare le mani.

Quanto a Francia e Germania, dopo le brillanti prove fornite con l'intervento in Libia, non c'è da stare molto tranquilli.

La questione di fondo è quali siano gli scopi che l'intervento si propone. Non il cambiamento di regime, si è detto. Probabilmente neanche la vittoria dei ribelli, dove hanno oramai preso il sopravvento i gruppi più estremisti e legati a Al Qaeda. Istruttivo, nei mesi scorsi, è stato quanto accaduto a proposito delle forniture di armi ai ribelli da parte degli USA, annunciate e poi bloccate proprio per il timore che andassero a finire nelle mani di quei gruppi, anche fuori della Siria. D'altronde, i gruppi più moderati, legati alla Fratellanza Musulmana sono stati indeboliti dal colpo di stato in Egitto, che ha ricacciato i Fratelli in clandestinità, mentre i militari hanno assunto un atteggiamento molto più distaccato se non ostile verso i ribelli.

Probabilmente, si vuole solo indebolire un po' Assad, costringendolo a non ricorrere ancora alle armi chimiche, ma senza accelerarne troppo la caduta. Ma questa non è una politica.

L'unica strada percorribile è quella di un governo di unità nazionale di transizione, che includa sunniti, alawiti e cristiani, sul modello di quanto fatto in Yemen.

Infine, vi è il fattore Russia. La Siria non è la Libia, e fa parte dello spazio strategico russo. Il rischio di una reazione forte da parte russa è forte, a partire dal porto di Tartus, che rappresenta la sua base strategica nel Mediterraneo, ove Putin ha schierato in questi mesi una significativa flotta da guerra.

USA e Russia avevano concordato, nei mesi scorsi, di promuovere una Conferenza internazionale a Ginevra, per favorire insieme il superamento della crisi siriana. Viene da chiedersi se l'utilizzazione delle armi chimiche, se davvero vi è stato, non sia stato uno strumento del regime per acutizzare la situazione, provocando una escalation nella tensione tra le due potenze, facendo così allontanare la possibilità di una soluzione concordata, che avrebbe comportato necessariamente un allontanamento dal potere degli Assad. (http://www.huffingtonpost.it/janiki-cingoli/siria-quale-politica-dietro-lintervento-militare_b_3831274.html?utm_hp_ref=tw)

Janiki Cingoli, direttore Cipmo, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

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