Il denaro non dorme mai. Oltre le tensioni Londra-Madrid su Gibilterra, le nuove "piazze" in Kenya, Tibet, Armenia e Gambia. A pensar male si fa peccato, ma in genere non si sbaglia mai. Tant’è che quasi nessuno si sarà lasciato persuadere dai comunicati ufficiali che dietro la tensione tra Madrid e Londra per l’indipendenza di Gibilterra raccontano di motivazioni ecologiste. Inverosimile. Non fosse altro per la piccolezza delle questioni (una barriera di cemento di 70 metri lungo le coste dell’aeroporto) e le dimensione dei due contendenti.

Fatto sta che in un mese dai primi scontri verbali e dalle manifestazioni di pescatori spagnoli (che nelle barriera vedono un sistema per stracciare le loro reti autorizzate invece dalla Ue a pescare anche di fronte alla Roccia) si è arrivati a tirare in ballo la Corte dell’Aja e addirittura una fregata, la Hms Westminster, accompagnata da una mini flottiglia dell’Union Jack. A quel punto la Spagna ha bloccato il transito di camion carichi di sabbia (servirebbero a stabilizzare la barriera) e ha minacciato di far pagare 50 euro per ogni passaggio verso Gibilterra. Pur sapendo che sarebbe contro le norme di Shengen. Un po’ ridondante per 70 metri di cemento anche se servissero a inibire la pesca e pure se dietro i diverbi diplomatici ci fossero, come indicano i quotidiani iberici, il traffico di sigarette (i 30mila abitanti importano ogni anno 60 milioni di pacchetti), il parassitismo del welfare (6.700 gibilterrini vivono in Spagna ma pagano le tasse in Uk) e le banche offshore.

Gibilterra in realtà non è più da anni un tax haven e la Roccia ha firmato una lunga serie di accordi di scambio di informazioni, ma certo non si può non notare che nessun accordo è stato fatto con Madrid e delle 21mila società offshore registrate a Gibilterra gran parte sono iberiche. Teoricamente un buon motivo per fare la guerra, ma non oggi. Gibilterra, che è Europa a tutti gli effetti, non potrà fare a meno di adeguarsi ai trattati di Lisbona e lentamente abbandonare i vecchi schemi elusivi con i quali si portava in casa cash sottratto al fisco spagnolo. C’è un business, invece, che continua a essere redditizio e non accenna a stati di crisi: quello del gambling e del gaming on-line.

E qui le coincidenze diventano qualcosa di più solido di semplici illazioni. I primi di agosto il governo inglese ha annunciato l’intenzione di cambiare le regole dei siti on line basati a Gibilterra. Dal primo dicembre 2014 tutte le vincite tramite siti registrati sulla Roccia subiranno un prelievo del 15 per cento. In sostanza Londra conta di incassare almeno 300 milioni di sterline all’anno su un giro d’affari di circa 2 miliardi. Nelle stesse ore anche la Spagna ha pensato bene di puntare allo stesso tesoretto. Il ministro Garcìa-Margallo tra le tante pseudo minacce (chiudere lo spazio aereo spagnolo ai velivoli diretti e provenienti dallo scalo di Gibilterra) ha infilato quella vera: tutte le società di gaming registrate a Gibilterra che usano server spagnoli dovranno pagare le tasse a Madrid e quelle che non usano server iberici saranno obbligate a farlo. Tempo un anno. Insomma, pur senza certezze ma questo sembra un motivo valido per scannarsi, diplomaticamente parlando.

Entrambe le nazioni pensano di avere diritti. Londra guarda alla Roccia come possedimento d’oltremare. Madrid come enclave europea che usa servizi connessi col proprio territorio. Il tutto mentre su denuncia belga la Commissione Ue si appresta ad aprire un fascicolo per decidere se le società di gaming gibilterrine facciano concorrenza sleale, violando il trattato di Lisbona. Se vincesse l’Inghilterra, il prelievo del 15% non dovrebbe essere sufficiente a mettere in crisi il sistema. Se dovesse vincere la Spagna, che verosimilmente immagina un gettito superiore, o la Commissione Ue, il rischio concreto è che i siti prendano altri lidi. Una mossa in più che va nella direzione di una nuova mappa geopolitica delle nazioni offshore. E gli esempi si stanno formando sotto i nostri occhi. Tanto più che quando da un lato del mondo si solleva il polverone delle polemiche, dall’altro con maggiore tranquillità si può lavorare a costruire le opportunità: alias piazze finanziarie.

Il caso di Nairobi è da scuola. Da più di un anno la società indipendente City Uk sta collaborando con il governo keniota e la City di Londra per sviluppare una centro finanziario internazionale proprio a Nairobi. Le autorità locali hanno già smentito l’intenzione di voler creare un paradiso fiscale e ciò è parzialmente vero. Ci sarà infatti scambio di informazioni, ma il progetto sembra una delocalizzazione parziale di attività finanziarie che la City non riesce più a svolgere per via dello stravolgimento avviato dal G20 di Città del Messico. Il lavoro congiunto tra City Uk e ministero delle Finanze keniota prevede infatti oltre a ingenti investimenti nel settore dell’ICT anche la predisposizione di nuove norme fiscali e di un sistema adeguato alle transazioni offshore.

Più o meno sulla falsa riga del comparto irlandese, per anni elemento chiave del double sandwich olandese (sistema utilizzato dalle multinazionali high tech). Inoltre Nairobi potrebbe sotto le ali protettrici di Londra intercettare quei flussi finanziari che da India e Cina ogni anno prendono la strada del continente nero. A dimostrare che l’Ocse potrà mettere infinite barriere ma i soldi vanno sempre dove c’è maggiore convenienza, il resto (a parte la lotta alla criminalità ovviamente) rischia di essere solo post-protezionismo.

La Cina ne è un altro esempio (sulla criminalità qualche dubbio). A partire da gennaio ha iniziato a costruirsi in casa ciò che per anni Montecarlo è stata per Parigi. La contea di Shannan in Tibet è stata trasformata in una piccola piazza offshore. E in soli sei mesi il gettito è già raddoppiato. I fondi d’investimento e le società quotate che aprono la sede in quella che in tibetano si chiama città di Lhoka pagano un’imposta flat del 14% (contro il 25% medio in Cina) e in base al fatturato possono chiedere un rimborso l’anno successivo fino al 40% dell’importo pagato. Niente male se si aggiunge che possono anche essere costituite società schermo in grado di tutelare parzialmente l’anonimato. I motivi sono due. Il primo portare ricchezza e denaro sperando di schiacciare le rivolte del popolo tibetano. Il secondo provare a creare un porto franco che possa replicare (ma al di fuori dei circuiti occidentali) ciò che negli anni d’oro è riuscita a fare Hong Kong.

In queste settimane si registrano interessanti movimenti anche in Armenia. Dove con il contributo russo è stata inaugurata una free-tax zone dedicata alle attività high tech. Ma soprattutto in Gambia. Il piccolo Paese africano ha avviato una sostanziale riforma delle norme fiscali e delle regole di costituzione societaria e dei trust, per non parlare di e-commerce e di e-gambling. L’offerta comprende trust ispirati al modello delle BVI (British Virgin Island), nessuna corporate income tax per i redditi prodotti fuori Gambia, licenze per non residenti e nessun audit richiesto per le società a capitale estero. I nuovi caraibi? Chissà deciderà il mercato. Quello offshore, ovviamente.

Sergio Paleologo

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