Due economisti italiani elaborano un nuovo approccio alla we-rationality, frontiera dell’economia comportamentale. La razionalità umana ha natura strana. Secondo le più accurate stime diffuse dall’Onu, lanciare il pianeta nella corsa verso la green economy non sarebbe quell’utopia che talvolta può sembrare. In realtà, un investimento del 2% del Pil mondiale potrebbe, da solo, produrre una transizione dal nostro modello economico, inquinante, dispendioso di risorse e inefficace: in dollari, si tratta di una cifra che oscilla attorno a 1.400 miliardi. Governi e cittadini sono a conoscenza, ovviamente, di questi dati. Ma la realtà è che, per dire, preferiamo continuare a spararci contro l’un l’altro: nel mondo, le spese militari – stimabili in 1.700 miliardi di dollari – superano già il 2% del Pil mondiale.
Così, il più grande problema per l’ambiente (e dunque per noi umani, che siamo in tutto dipendenti da madre natura per la nostra sopravvivenza) non sembra essere la carenza di risorse economiche o tecnologiche, ma la mancanza di disponibilità degli uomini a cooperare. L’uomo, come insegna qualsiasi classico manuale d’economia, è infatti un animale razionale, e in quanto tale persegue istintivamente il proprio interesse egoistico: peccato che questa lezione, alla luce empirica e di nuova conoscenza scientifiche, si riveli sbagliata.
I pionieristici studi in materia di Herbert Simon o di Daniel Kahneman e Amos Tversky non sono certo una novità, essendo stati celebrati entrambi e da tempo con dei Nobel per l’economia. Oggi, la novità è che un diverso approccio, con potenzialità d’applicazioni molto promettenti soprattutto in ambito ambientale, si sta facendo largo dalle nicchie dell’economia comportamentale, una branca eterodossa della teoria economica con forti venature di psicologia e scienze cognitive. Si tratta della we-rationality, la razionalità del noi, recentemente illustrata su Energia dagli economisti italiani Luciano Canova e Alessandra Smerilli.
«L’ambiente costituisce da sempre una componente critica della microeconomia ortodossa – osservano i due autori –, che derubrica la distribuzione dei beni pubblici ambientali a “fallimento del mercato” e interpreta fenomeni quali l’inquinamento come esternalità negative». Dopo decenni di stallo, dunque, cambiare approccio potrebbe essere una boccata d’ossigeno salutare. In sostanza, si tratta di ridefinire «la prospettiva con cui il problema del comportamento cooperativo viene presentata o, se vogliamo, di modificare gli assi cartesiani su cui poggi l’idea di razionalità utilizzata dai modelli economici, sostituendo la tipologia di agente standard nel pensiero neoclassico con un soggetto che, per le sue stesse caratteristiche cognitive, in determinate situazioni dovrebbe essere portato istintivamente a cooperare piuttosto che a seguire una logica di interesse individuale».
Partendo da un’analisi della teoria dei giochi e, in particolare, del noto dilemma del prigioniero, la domanda che si pongono gli autori, in sostanza, è: «chi decide di cooperare a prescindere lo fa, forse, perché è irrazionale? O la sua azione è comunque configurabile come razionale?». Per arrivare a una risposta, Canova e Smerilli ripercorrono le pietre miliari della we-rationality, saltando dai contributi di Michael Bacharach a quelli di Robert Sudgen, fino ad arrivare ad una sintesi originale quanto robusta.
Supponendo che ogni soggetto abbia un diverso grado di we-thinking (ovvero sia più o meno portato a pensare in termini di “ciò che è meglio per noi”, piuttosto che “ciò che è meglio per me”), il livello di cooperazione nella popolazione «può variare. In particolare, esso può 1) essere pari a zero (il processo di cooperazione non inizia) se sono presenti pochi soggetti (o nessuno) con un alto grado di we-thinking; 2) essere positivo, con uno o più equilibri. Che si possa raggiungere o meno un equilibrio con un alto livello di cooperazione, dipende dall’esistenza di una “massa critica” di soggetti con un alto grado di we-thinking. E ciò a sua volta dipende da alcune circostanze oggettive, quali per esempio il costo della cooperazione, e da altre più soggettive, come la presenza di una “rassicurazione” che molti altri cooperino».
L’originalità di questo approccio – e qui si torna all’utilità di un approccio we-rationality nella gestione dei beni pubblici, in primis l’ambiente – può essere fecondamente utilizzata per creare un «design istituzionale che tenga conto di queste dinamiche e della struttura cognitiva della mente umana», come già suggerisce la filosofia politica del paternalismo libertario (quel nudge di Richard Thaler e Cass Sunstein che sta già facendo breccia in Usa e Gran Bretagna).
Da un punto di vista delle politiche pubbliche, si suggerisce così di studiare (e applicare) quegli strumenti che siano più efficaci nell’intervenire sulle dinamiche di una comunità, sfruttando l’opportunità «di investimenti culturali che incidano sull’emergere di un comportamento virtuoso». La «rilevanza dei modelli di massa critica», non va infatti dimenticato, è sempre e comunque data dalla qualità dei singoli cervelli pensanti che la compongono, e la responsabilità individuale del cambiamento sociale non può essere derogata.
di Luca Aterini
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