Oltre 700 vittime “ufficiali” – molte di più secondo fonti informali – sono un punto di partenza obbligato per qualsiasi analisi si ponga l’obiettivo di scrutare quali possibili esiti possa produrre la crisi in cui l’Egitto è sprofondato dalla deposizione di Mohammed Morsi.
di Marina Calculli
Il dibattito sulla “legittimità” che ha dominato le ultime settimane e che ancora anima l’ostinata polarizzazione domestica – la legittimità perduta dall’ex raìs durante il suo disastroso anno di governo, quella rivendicata dal movimento Tamarrod o dal colpo di stato militare che, attraverso un atto di forza, ha dato concretezza agli obiettivi di molti egiziani, o ancora quella del governo ad interim che regge il paese dall’inizio di luglio 2013 – perde completamente di senso, a mano a mano che l’escalation incontrollata della violenza trasferisce tutti i nodi dialettici dalla dimensione politica a quella dello scontro armato, neutralizzando completamente la prima a vantaggio assoluto della seconda.
In questo nuovo contesto ogni possibilità di compromesso decade, mentre a prevalere è inevitabilmente la logica della vittoria contro la sconfitta, della conquista di un bastione o di una piazza, del frustrare oltremodo l’avversario per poter beneficiare del suo sfinimento.
Di questi ingredienti sono pregne le immagini che ci giungono in questi giorni dal Cairo e dalle altre città egiziane: cecchini sui palazzi, carri armati che irrompono prepotentemente nello spazio urbano, ragazzi che cercano disperatamente di mettersi al riparo dai proiettili lanciati in aria con l’unico intento di uccidere, disumane grida di gioia nel vedere l’altro accasciarsi a terra spirando. E’ la nozione stessa di legittimità che si trasforma semanticamente quando si passa da un ambito politico-istituzionale a quello bellico, per di più senza riuscire ad impedire che le faglie da quest’ultimo prodotte (questo vale in particolare nei conflitti civili) non lascino relitti che possano pericolosamente ostacolare, nel medio e lungo periodo, il ripristino del corretto funzionamento della prima. E’ per questo opportuno riconoscere che le vittime designate degli eventi di questi giorni sono – senza ombra di dubbio – i Fratelli Musulmani e i sostenitori del deposto presidente Morsi.
Che anche questi ultimi posseggano e facciano uso di armi è irrilevante, non solo al netto della conta delle vittime in un campo e nell’altro, ma proprio perché, una volta collassata la dimensione politica, ogni mezzo per conquistare spazi di potere diventa automaticamente legittimo. Ancora più perniciosa è poi la sfilza di comunicati emessi dall’“illuminato” governo provvisorio, trapelanti di intolleranza nei confronti dei Fratelli Musulmani, dal permesso di sparare sugli assembramenti dei manifestanti pro-Morsi, al proposito, espresso ieri dal premier ad interim, il noto accademico al-Beblawi, di sciogliere e dichiarare illegale la Fratellanza.
Facendo questo, la nuova dirigenza si rende di fatto correa del processo di frammentazione della società e dello stato che essi stessi pretendono di difendere: se, infatti, l’accusa principale rivolta al governo dell’ex-raìs e alla sua dirigenza islamista era stata quella di aver spaccato in due l’Egitto – imponendo al paese una costituzione controversa, cercando di instaurare un monopolio settario delle istituzioni statali e degli uffici governativi, nel migliore stile autoritario – il tentativo del governo in carica, approvando l’uso indiscriminato della forza contro cittadini ed elettori rimasti fedeli a Mohammed Morsi, diventati di colpo “terroristi”, non sembra meno tenace nel tentativo di deviare la thawra (rivoluzione) del 2011 verso una direzione assai diversa da quella che i giovani di piazza Tahrir avevano a cuore.
Difficile stabilire quanto veritiero sia il vociare delle ultime ore sulla presunta decisione del generale al-Sisi di aver mandato all’aria, all’ultimo momento, un accordo politico già raggiunto con i Fratelli, optando unilateralmente e arbitrariamente per la politica della forza e del massacro (quello che in molti continuano a chiamare “sgombero”), con il plauso di molte forze politiche pseudo-liberali, di una parte della società egiziana e l’appoggio – retorico e finanziario – del re Abdallah dell’Arabia Saudita, notoriamente un campione della democrazia e dello stato di diritto. La scelta di imboccare questa via ha certamente il fine, neanche troppo implicito, di riscattare e riportare in auge quel nizam (‘sistema’), malato di corruzione, clientelismo e mancanza di trasparenza, che nel 2011 molti egiziani avevano coraggiosamente capovolto per ridare ‘aish, hurriya e karama (pane, libertà e dignità) ad una società che delle malattie di quel sistema aveva per troppo tempo dovuto fare le spese.
Non è d’altra parte la prima volta nell’ultimo biennio che i militari tentano di indirizzare a loro vantaggio la rivoluzione, in un paese che alle “correzioni rivoluzionarie” è storicamente ben avvezzo. Tuttavia, dopo aver conferito ai militari la legittimità per condurre l’Egitto alle prime elezioni “libere e democratiche” della storia egiziana, tra Ottobre e Novembre del 2011 fu proprio una rinnovata piazza Tahrir a fermarli, denunciando le pratiche autoritarie e violente con cui il Consiglio Supremo delle Forze armate aveva retto il paese dopo la deposizione di Mubarak.
Che i militari siano ottimi strateghi ma politici inetti, si sa. Questo secondo tentativo di “correggere” la rivoluzione ha però un’ulteriore e preoccupante implicazione. Uscire dallo stato di diritto, usare le armi dello stato contro i cittadini e ristabilire arbitrariamente il confine tra chi può accedere alla competizione politica e chi no significa ignorare in modo pericolosamente miope il 2011 e gli effetti che gli eventi di quell’anno hanno prodotto nella politica e nella società.
Se, infatti, è giusto ridimensionare l’entusiasmo per le democratizzazioni "express" e a buon mercato e ricordarci quanto i processi di transizione siano difficili e contraddittori, è altresì importante non sottovalutare un altro dato cruciale: la thawra del 2011 ha sancito una frattura netta tra un’era in cui lo spazio pubblico veniva concepito come ermeticamente chiuso – occupato nella sua totalità da un unico partito, un unico regime, un’unica famiglia – e un’era in cui quello stesso spazio è divenuto improvvisamente aperto e libero. Il che – attenzione – non vuol dire affatto “democratico”; vuol dire semplicemente che chiunque voglia competere sull’arena politica, può farlo, a differenza di quanto avveniva in passato. Il coordinamento virtuoso tra i vari competitors è la vera sfida di ogni transizione verso la democrazia, in cui spesso si magnifica il dilemma dahliano per cui spesso chi assume democraticamente il potere poi lo amministra con mezzi anti-democratici. Se una correzione di questa tendenza è fondamentale, affinché si impratichisca e si consolidi la logica del pluralismo e dell’alternanza – tanto difficile da interiorizzare proprio perché inedita – il “golpe correttivo” dei militari e l’inasprimento delle posizioni anti-islamiste, va invece tout court in una direzione restauratrice.
Il processo all’Islam politico, assai in voga in questi mesi, che riscontra nell’imputato una consustanziale incompatibilità con i valori democratici, non fa che prestare il fianco ad un ancien régime alla riscossa. Non perché l’Islam politico non abbia mostrato molti e sostanziali limiti quando messo alla prova (per appena poco più di un anno) dell’amministrazione della cosa pubblica, ma perché i partiti islamisti, in virtù del loro successo elettorale, non possono essere cancellati dalla scena politica con un colpo di spugna. Sarebbe un errore gravissimo per due motivi: in primo luogo, verrebbe così repressa ogni possibilità di incanalare il pluralismo nascente all’interno di un sistema istituzionale che lo fortifichi; significherebbe cioè celebrare troppo precocemente il funerale della rivoluzione del 2011.
Il secondo motivo è per certi versi ancora più preoccupante per il futuro dell’Egitto: bandire da ogni tavolo istituzionale e legale un attore così importante come la Fratellanza Musulmana significherebbe legittimarlo a fare politica per vie anti-istituzionali e illegali, ricorrendo alla pratica del terrore, corroborata da un’ideologia di riscatto da un martirio cominciato ai tempi di Nasser e mai terminato.
E’ proprio per questo che le posizioni del governo provvisorio appaiono quanto mai sprovvedute, mentre forse i militari già pensano di riesumare la consuetudine delle torture, dei blitz notturni, della repressione più cruda contro esponenti dell’organizzazione islamista: una prassi che, negli anni Novanta, segnò una pagina poco nota ma assai dolorosa della storia dell’Egitto. (
http://www.thepostinternazionale.it/blog/middle-east-diaries/la-crisi-politica-in-egitto)