Recentemente il CESE – Comitato Economico e Sociale Europeo – ha approvato un parere che rilancia il progetto di integrazione sociale dell’Unione Europea, agendo sul fronte delle politiche dell’occupazione e stimolando la crescita di nuovi strumenti finanziari orientati a sostenere iniziative che, da vari punti di vista, contribuiscono a rafforzare “il pilastro” del modello sociale europeo. Il documento si colloca nell’ambito di una ricca produzione normativa europea che, tra l’altro, assegna una nuova centralità alle organizzazioni dell’economia sociale, sia come veicoli di coesione che come agenti di un rinnovato approccio all’innovazione.
Il progetto di integrazione europea è chiamato ad affrontare grandi sfide e insieme cogliere molte opportunità di questo tempo, pena il rischio di sprofondare in una crisi senza ritorno che non riguarda solo i paesi più esposti come il nostro. Ciò vale sia per l’economia in generale, sia per le reti sociali e le istituzioni politiche, oltre che naturalmente per l’economia sociale che sempre più si sta orientando verso l’impresa sociale.
Da questo punto di vista assume un ruolo chiave l’“Iniziativa per l’imprenditoria sociale” (Commissione Europea 2011, SEC 1278) promossa dal Commissario al mercato interno Barnier, in cooperazione con gli altri commissari Tajani e Andor, sulla scia di precedenti Comunicazioni che perseguivano il macro obiettivo di rilanciare il mercato unico europeo, ovvero il principale collante dell’Unione (Commissione Europea 2011, COM 206). Alcuni osservatori hanno rimarcato lo “scivolamento” dell’imprenditoria sociale dal suo alveo naturale, ovvero l’imprenditorialità, al mercato interno. Ma va sottolineato che senza la leadership del Commissario Barnier questa nuova stagione di politiche europee a favore dell’impresa sociale non sarebbe mai arrivata e si sarebbe rimasti agli auspici contenuti nel “rapporto Monti” su limiti e prospettive del mercato interno elaborato su mandato della presidenza della Commissione Europea (Monti, 2010). Invece il “oui” di Barnier, anche a fronte di sollecitazioni venute dal mondo della ricerca come nel caso dell’appello dei 500 ricercatori promosso da Euricse, è stato rilevante (Euricse, 2010).
Il CESE da parte sua è da tempo impegnato sul fronte dell’economia e dell’imprenditoria sociale. Un primo importante documento è il Parere promosso dal collega Cabra de Luna sulla diversità delle forme d’impresa (CESE 2009, INT/447). Un parere oggetto di un aspro confronto interno perché incentrato sul principio di biodiversità dei modelli imprenditoriali. Aspetto, quest’ultimo, che è scontato per chi opera nel campo dell’imprenditoria sociale, ma che non lo è per altri interlocutori: sindacati, istituzioni pubbliche, rappresentanze dell’economia tout court. Si tratta quindi di una pietra miliare che ha inaugurato una produzione di policy piuttosto ricca. Un secondo documento è stato il Parere esplorativo della collega Rodert richiesto dal Commissario Barnier in sede di istruttoria dell’“Iniziativa per l’imprenditoria sociale” (CESE 2011, INT/589). Si tratta di un atto molto rilevante perché ricco di raccomandazioni che poi sono state assunte nella Comunicazione della Commissione Europea, dimostrando così la rilevanza dei contenuti e, più in generale, il fatto che non si trattava di un mero parere consultivo ma quasi di una “assistenza tecnica” fornita dal CESE alla Commissione stessa. Dopo la pubblicazione dell’Iniziativa sull’imprenditoria sociale, il Comitato ha prodotto altri tre Pareri uno a firma di Guerini che amplia e approfondisce in chiave propositiva i contenuti della Comunicazione (CESE 2012, INT/606) e altri due a firma ancora di Rodert che intervengono su temi particolarmente delicati: i fondi di investimento dedicati all’imprenditoria sociale (CESE 2012, INT/623) e i marchi che certificano l’attività “sociale” delle imprese (tra cui anche quelle a scopo sociale) (CESE 2013, SOC/468). Questi documenti sono il frutto di una mediazione all’interno del CESE anche solo per individuare i relatori. Si tratta infatti di un organismo che raccoglie le diverse rappresentanze del mondo economico e del consumo e quindi non era scontato, ad esempio, indicare un relatore come Guerini rappresentante del mondo cooperativo e proveniente da paesi del Sud Europa. E questo nonostante l’economia sociale veda nella forma cooperativa un attore centrale e in quei paesi assuma un “peso specifico” assai rilevante.
Da questa documentazione si possono trarre almeno quattro raccomandazioni in termini di policy making, utili non solo in ambito comunitario ma anche a livello nazionale e locale. Va considerato, infatti, che ci troviamo nella fase cruciale della negoziazione dei fondi strutturali 2014-2020 rispetto ai quali l’impresa sociale rappresenta una priorità d’investimento.
- In primo luogo è necessario armonizzare le politiche comunitarie e nazionali in tema di sostegno all’imprenditoria, riconoscendo pari dignità alle imprese a finalità sociale. Solo in questo modo sarà possibile, nei fatti, prevedere misure di incentivo specifiche per ciascun modello, riconoscendone appunto le peculiarità.
- In secondo luogo è urgente creare nuovi sistemi di accesso al credito riconoscendo, ancora una volta, gli specifici fabbisogni delle imprese. In questo senso è utile sottolineare il parallelismo tra imprese sociali e piccole medie imprese, con queste ultime, in particolare, che rappresentano l’elemento costitutivo del tessuto imprenditoriale europeo. Ma proprio queste imprese, oltre a quelle sociali, sono strutturalmente più deboli rispetto all’esigenza sempre più vitale di accedere a risorse finanziarie da investire, in particolare in innovazione.
- In terzo luogo è necessario migliorare il contesto giuridico. Rispetto a questo tema sono stati fatti significativi passi avanti che però sono da perseguire. Dopo la revisione dello statuto europeo delle imprese cooperative (Consiglio Europeo 2003, Reg. CE 1435/2003; Dir. 2003/72/CE) è necessario lavorare anche sugli statuti delle altre famiglie dell’economia sociale. L’iniziativa per l’imprenditoria sociale cita esplicitamente le fondazioni, ma sono necessari interventi anche sulle associazioni, in quanto in alcuni contesti - come quello nord ed est europeo - è soprattutto l’associazionismo che promuove imprenditoria sociale.
- Infine dall’insieme di questi documenti si evidenzia chiaramente il problema di garantire una migliore visibilità e riconoscibilità all’impatto generato dalle imprese sociali nel contesto economico e sociale. L’enfasi sugli strumenti di labelling, sia per le imprese sociali che per i fondi di investimento dedicati, rappresenta un elemento centrale per il policy maker europeo. Solo veicolando dati d’impatto chiari e rigorosi sarà possibile migliorare la visibilità e la reputazione delle imprese sociali, sia verso interlocutori istituzionali che presso l’opinione pubblica in generale. E grazie alla conoscenza del valore economico, occupazionale e sociale prodotto sarà possibile per queste imprese attrarre migliori risorse umane, accedere a nuovi mercati, attrarre più investimenti.
L’insieme di questi contenuti è finalizzato a sostenere la missione dell’imprenditoria sociale in una fase di grande criticità dell’Europa, sia per gli effetti di una crisi economica che non è solo congiunturale, sia per il deficit di legittimazione delle proprie istituzioni. Del resto i dati parlano chiaro: la rilevazione dell’Eurobarometro 20121 indica che per l’80% dei cittadini europei il livello di povertà nel proprio contesto di vita è in crescita e che per il 18% si vedrà radicalmente diminuire il reddito disponibile nel corso dell’anno, mentre per il 30% vi è incertezza circa la possibilità di mantenere il proprio lavoro. Esistono sicuramente significative differenze tra paesi, ma anche quelli “forti” del Nord Europa di certo non sono impermeabili alla crisi.
La risposta di politica europea a questo stato di cose è, o dovrebbe essere, la strategia “Europa 2020” che però fino ad oggi ha fatto fatica a trasformarsi da dichiarazione d’intenti a una vera e propria politica industriale e sociale (Commissione Europea 2013, COM 2012 795). D’altro canto essa propone l’obiettivo di generare 7,6 milioni di posti di lavoro aggiuntivi operando in tre aree principali: green economy, servizi sanitari e di cura alla persona (che hanno segnato un +10% di occupazione nel triennio), nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione. Appare chiaro che, anche non considerando settori ad elevato valore aggiunto tecnologico, le cooperative e le imprese sociali siano molto ben posizionate in ambiti dove è possibile generare questa nuova occupazione e dunque questo comparto si caratterizza per un ruolo forte come veicolo per uscire dalla crisi, a patto di assegnare la giusta priorità ad ambiti fin qui considerati residuali.
Questa opzione non è però indenne da rischi: sapranno le imprese sociali - soprattutto quelle cooperative- cogliere queste sfide e dare risposte strutturanti rispondendo alla crisi? Oppure saranno altri comparti ad affermarsi in campo sociale, in particolare il for profit? La questione nominalistica sul titolo della “Comunicazione Barnier” - che non distingue tra “social business” e “social enterprise” - è un chiaro indicatore del confronto in atto. Dice di una partita sostanziale che vede le imprese for profit, soprattutto in sede anglosassone, cercare di posizionarsi in settori fin qui appannaggio dell’economia sociale. E questo per almeno tre ragioni: in primo luogo si tratta di ambiti che garantiscono crescita costante e sicura anche senza generare profitti elevati; in secondo luogo è possibile gestire la creazione di occupazione con sistemi contrattuali più flessibili e con bassa conflittualità sindacale; in terzo luogo si tratta di settori dove è possibile effettuare investimenti finanziari poco remunerativi in termini di valore economico ma sicuri e ad elevato impatto reputazionale e di legittimazione presso una cittadinanza altrimenti critica nei confronti del modello economico dominante. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è all’origine dell’impact investing ed è stato ribadito dai più grandi gruppi finanziari consultati in sede di definizione del regolamento sui fondi di investimento sociale da parte del Parlamento Europeo (Parlamento Europeo 2013, Reg. 346/2013). Si tratta di un mercato che vale almeno 100 miliardi di euro e che consentirebbe agli attori della finanza globale di bilanciare asset più rischiosi con rendimenti limitati e certi.
Tutto ciò non rappresenta un problema di per sé. Può trattarsi anzi di una grande opportunità. Rimane il problema di chi sarà in grado di esercitare una leadership di processo coinvolgendo questi nuovi, rilevanti stakeholder. Chi, in altri termini, saprà promuovere adeguate sinergie. Il rischio è che non sia l’economia sociale, perché debole nella capacità di rappresentazione in quanto impegnata più nella lobby interna che presso le istituzioni e gli altri soggetti economici.
E’ necessario quindi dar vita a un nuovo “blocco sociale” alimentato da una rinnovata definizione della dimensione sociale Europea. E’ questo l’obiettivo di un più recente documento approvato nel maggio scorso che mi ha visto come relatore (CESE 2013, SC/038). Si tratta di un parere esplorativo richiesto al CESE a gennaio dal Presidente del Consiglio Europeo van Rompuy, sulla base del mandato a lui conferito durante il vertice europeo di dicembre 2012, nel quale è stato chiesto di presentare un rapporto dettagliato e una tabella di marcia su una nuova fase dell’Unione Monetaria Europea (UEM) che includesse la “dimensione sociale dell’UEM, dialogo sociale compreso”.
Il Parere del CESE riconosce che la ristrutturazione dell’economia e gli investimenti sociali dell’Unione Europea e degli Stati membri richiedono ben più di strutture formali di governance e meccanismi regolamentari. È per questo che la società civile organizzata e i singoli cittadini europei sono direttamente interessati e hanno un loro ruolo da svolgere. La titolarità partecipativa del progetto europeo assume un’importanza fondamentale. In questo contesto, il CESE propone due iniziative.
- L’emissione di obbligazioni sociali europee non finanziate dal bilancio dell’UE o da quelli nazionali, ma dagli stessi soggetti della società civile europea che sollecitino direttamente il risparmio dei privati di cittadini e fondi di investimento, in modo da consentire alle imprese, ai sindacati, alle cooperative, alle associazioni, alle ONG e ai singoli cittadini di unirsi per promuovere progetti finanziariamente sostenibili dotati di un valore sociale riconosciuto in ambiti quali l’edilizia, i servizi, l’apprendimento e le competenze, l’impresa sociale e lo sviluppo delle comunità e delle infrastrutture.
- La creazione di una Rete europea dell’istruzione per i lavoratori disoccupati attraverso l’emissione di voucher transfrontalieri per l’istruzione e sistemi di scambio e di credito accademico di tipo ERASMUS per offrire ai lavoratori disoccupati nuove opportunità formative europee, competenze e percorsi professionali corrispondenti alle reali esigenze del mercato del lavoro europeo.
In specifico, rivolgendosi in particolare al Consiglio europeo, il CESE invoca:
- un piano europeo globale di ripresa economica, che sia basato sul Patto per la crescita e l’occupazione e includa un Patto europeo per gli investimenti sociali e un Fondo europeo per l’innovazione sociale, un bilancio UE credibile dedicato alla promozione della prima occupazione e della formazione per i giovani e un efficace passaporto europeo delle competenze che sia riconosciuto e accessibile in tutta l’Unione;
- un Fondo sociale europeo e un Fondo europeo per l’adeguamento alla globalizzazione riveduti e adeguati alle dimensioni della crisi, che possano contribuire a generare investimenti per la crescita, a creare nuove competenze e a favorire la reindustrializzazione, la competitività e la coesione sociale;
- un Fondo europeo di solidarietà contro la povertà e sistemi di reddito minimo garantito, al fine di attenuare le conseguenze sociali e finanziarie del consolidamento dei bilanci;
- la garanzia che i diritti sociali fondamentali e la libera contrattazione collettiva siano rispettati in tutta l’Unione.
Il CESE conferma l’urgente necessità di ritornare ad un bilanciamento decisivo tra le dimensioni monetaria, economica, fiscale e sociale dell’UEM, secondo i principi fissati con grande chiarezza dell’art. 3, comma 3 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) che parla di una “economia sociale di mercato, fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale…”. Le politiche di responsabilità di bilancio restano fondamentali, ma esse devono essere bilanciate nel merito e nello sviluppo temporale, con politiche più consistenti per la crescita e l’occupazione, per la coesione sociale e territoriale. Altrimenti si può dimenticare l’art. 3 del TUE e con esso oltre metà dei testi del Trattato. Rinunciando così a qualunque possibilità di rovesciare il trend drammatico di crollo della fiducia nell’UE di tutte le fasce della popolazione europea, con il rischio assai concreto che le prossime elezioni della primavera 2014 si trasformino nella frantumazione nazionalista e populista del progetto europeo.
Luca Jahier
Note e Bibliografia