Il saggio Elogio dell’uomo economico. Per il filosofo Petrosino assolutizzarlo vuol dire dimenticare l’istanza di giustizia dell’economia.

Antonio Sanfrancesco

Può l’economia concepirsi come scienza esatta e non come scienza umana rinnegando la sua stessa natura? E cosa accade se essa pretende di liberarsi da ogni “richiamo” da parte dell’etica, della filosofia, della politica, del diritto per porsi unicamente come business?

È successo in questi anni e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’economia è stata equiparata, anzi ridotta, alla sua forma di mercato, alla pura finanza speculatrice, insomma alla sola dimensione del profitto finendo per innescare una crisi globale pesantissima. Inoltre, si è finito per ragionare su di essa solo in termini economicistici. Vale a dire, identificando l’oggetto dell’economia in quanto tale con il profitto e con tutte le pratiche, a livello individuale e collettivo, finalizzate ad ottimizzare tale profitto. Da questo punto di vista, quindi, “economico” sarebbe semplicemente sinonimo di “egoistico” perché proprio l’attività economica rivelerebbe l’autentica natura dell’uomo, cioè quella di un essere egoistico.

In Elogio dell’uomo economico (Vita e Pensiero, pp. 74, € 10) il filosofo Silvano Petrosino, docente all’Università Cattolica di Milano e Piacenza, capovolge questa prospettiva affrontando il tema dell’economia dal punto di vista antropologico. L’uomo, avverte l’autore, è come ogni altro essere vivente finito e mortale ma a differenza degli altri esseri sa di esserlo e questa sua consapevolezza lo porta inevitabilmente a “fare economia” del proprio tempo e spazio, dei propri legami e affetti. Esso quindi non vive a caso ma si mette a misurare e ordinare, calcolare e pianificare, in una parola “abita” la propria vita.

L’atto dell’abitare non è uno dei tanti dell’uomo ma quello, per così dire, costitutivo della sua stessa natura, egli infatti esiste in quanto abita. Il ragionamento di Petrosino prende le mosse proprio da questo punto fondamentale: l’economia rinvia al modo d’essere peculiare, specifico dell’uomo il quale

«non può “esistere” senza “abitare” e non può “abitare” senza “misurare e calcolare”». E abitare, spiega l’autore rifacendosi al libro biblico del Genesi, significa «coltivare e custodire» (Gen 2,15).

Se è così, ecco svelata la fallacia di certe analisi che vorrebbero ridurre l’economia a una serie di leggi oggettive, a una concatenazione di variabili o, al più, a una questione di governance. Tali analisi, spiega l’autore, sono sbagliate perché concepiscono l’uomo come un mero organismo che reagisce a precisi stimoli, lo riducono, cioè, unicamente ai suoi bisogni e trascurano invece il desiderio, irriducibile, che lo abita e lo inquieta e lo rende radicalmente diverso da tutti gli altri esseri viventi.

L’autore insiste sul fatto che l’uomo calcola e non può che calcolare, ma c’è in lui «dell’altro», «qualcosa» che con insistenza lo sollecita verso un «tutt’altro conto», un “conto” in cui è in grado di tener conto anche dell’altro, del prossimo. L’uomo, quindi, è capace di un’economia non economicista anche se corre sempre il rischio di pervertire l’economia in economicismo. Ciò accade quando si prende un aspetto dell’agire economico, il profitto, che in sé non è certo un male, e lo si assolutizza.

«Esso», scrive Petrosino, «rompe il legame essenziale tra il “coltivare” e il “custodire” che anima la cura dell’abitare, convoglia l’intera attività del soggetto solo sul coltivare (il guadagno) e rende il soggetto stesso sordo e indifferente ad ogni altro e a tutti gli altri. In verità – come negarlo? – se qualcuno fa un affare, qualcun altro certamente lo subisce».

L’autore non demonizza il profitto ma mette in guardia dal rischio che da uno dei tanti elementi alla base dell’agire economico dell’uomo divenga l’unico, il più importante, l’assoluto. «Si deve dunque riconoscere», nota, «che il business perverte l’economia non tanto perché si “concentra” sul profitto (lo ripeto, quest’ultimo è un bene), quanto piuttosto perché, atterrito dalla paura della fine (“la nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore. La nostra esistenza è il passare di un’ombra…”), si “concentra” solo su di esso, si “incanta” sul profitto, e così facendo svuota dall’interno e sdrammatizza l’agire economico risolvendolo interamente in quello che è senz’altro un suo fattore fondamentale ma, per l’appunto, solo uno tra altri: l’economia vive di profitto ma, se ne può essere certi, in ogni istante può anche morirne».

La deriva del business, è la conclusione, non si argina attraverso gli appelli moralistici e anche un po’ ipocriti alla filantropia, all’etica degli affari, all’economia del dono o addirittura a un’anti economia. Queste soluzioni, a ben vedere, sono toppe peggiori del buco messe in atto da chi, dopo aver causato la malattia, vuole cercare di camuffarne gli effetti e nascondere la sua condotta.

La risposta all’idolo del profitto è semplicemente l’economia ma un’economia «all’altezza del suo stesso nome», in grado cioè di salvaguardare l’istanza di giustizia che la abita fin dal principio. Non è un’utopia ma una possibilità, fragilissima, offerta all’uomo per essere all’altezza della sua vocazione: coltivare senza distruggere, coltivare e custodire.

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/economia-profitto-limite#ixzz2bB0ta5hr

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